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Quando si guarda alla proposta berlingueriana del “compromesso storico” nel suo rapporto con la coeva esperienza di governo delle sinistre cilene, raggruppate nella coalizione di Unidad popular e guidate dalla carismatica figura di Salvador Allende, va sottolineato un elemento, per quanto esso possa apparentemente sembrare paradossale. I “fatti del Cile” che danno il titolo al primo dei tre articoli con cui Berlinguer avanzerà la proposta strategica chiamata ad informare la politica comunista dell’interno decennio; ebbene questi “fatti” non sono realmente determinanti ai fini della proposta del compromesso storico. Le linee generali di quest’ultima, nella sostanza, sono infatti oggetto di dibattito nel gruppo dirigente da diversi anni, conoscendo una sanzione ufficiale almeno dal XII congresso e da quando l’esaurimento del centro-sinistra e la parentesi del governo Andreotti-Malagodi (vista come preliminare ad un’apertura alla destra monarchico-missina) avevano posto il problema di uno sbocco positivo a dei “nuovi equilibri” tali da includere anche il Pci.
Il golpe e lo scontro col centro
Il golpe militare cileno viene visto semmai come una conferma dei timori che una larga parte del gruppo dirigente ha verso le ipotesi di scontro frontale con il centro, o quanto meno verso tutte quelle ipotesi tali da non tenere adeguatamente in considerazione il partito che della componente cattolica della società italiana è il principale rappresentante, cioè la Dc. Nonostante infatti il sostegno e la grandissima attenzione che il Pci e la stampa comunista (dall’Unità a Critica marxista, passando per Rinascita) mostrano verso l’esperienza cilena, i dirigenti del partito sono quantomeno scettici verso la preclusione che Unidad popular mostra verso qualsiasi ipotesi di dialogo e compromesso volta a conquistare il supporto dell’ala progressista e democratica della Dc cilena.
Il viaggio di Pajetta
E’ eloquente e significativa, da questo punto di vista, la reazione di Pajetta all’indomani del suo viaggio in Cile: il dirigente comunista rimarrà infatti colpito sia dal settarismo delle sinistre cilene (e in particolare dei socialisti), sia da quello che ritiene essere un avventurismo economico che, al netto del sabotaggio, praticato dalle multinazionali e gruppi sociali più retrivi, si mostra comunque incapace di tenere adeguatamente in conto bisogni ed esigenze di quei ceti medi ancora imprescindibili – stando alla stratificazione sociale del paese – nella prospettiva di una trasformazione democratica e socialista della società cilena.
Tenere aperto il dialogo con la sinistra democristiana
Non è un caso se il Pci (con la mediazione di alcuni fra gli esponenti democristiani più sensibili rispetto alla questione) cercherà di tenere aperto il dialogo con quegli esponenti della sempre più isolata sinistra interna della Dc cilena: dirigenti come Leighton, Tomic, Fuentealba, ma anche il centrista Aylwin, ostile rispetto alla prospettiva di una saldatura a destra del partito e alle ipotesi golpiste.
Nel dibattito interno, i comunisti italiani rimproverano ai comunisti e ai socialisti cileni di avere operato più ai fini dello sgretolamento progressivo della sinistra cattolica (da cui prendono vita organizzazioni come il Mapu o come Iziquierda Cristiana, aggregatesi successivamente al fronte di Unidad popular), di avere scommesso più sulla rottura dell’unità dei cattolici cileni che non sulla valorizzazione di quella componente progressista pur presente e consistente fino ad un certo momento, ma che nel triennio ‘70/’73 diverrà sempre più debole e ininfluente nel confronto coi settori conservatori e reazionari rappresentati da Frei.
Una lezione che parla all’Italia
Per i comunisti italiani quella cilena è dunque una lezione che parla direttamente all’Italia, dove in termini di culture politiche popolari il quadro è, tutto sommato, simile. Nei suoi tre articoli del ‘73, Berlinguer si mostra consapevole del fatto che la via democratica al socialismo non sia necessariamente una via indolore: tutt’altro. Viste le resistenze e i contraccolpi che questa prospettiva può ingenerare (e che ha già ingenerato, nei decenni precedenti), il movimento operaio deve, a suo avviso, mescolare sapientemente «forza» e «consenso», non limitandosi ad un blocco sociale di tipo operaio ed incentrato sul mondo del lavoro salariato, ma puntando al contrario a coinvolgere nel proprio progetto di rinnovamento anche quel vasto arcipelago di ceti medi e di piccoli proprietari.
Un’alternativa democratica
Ma alle alleanze in termini di blocco sociale e fra i diversi segmenti della stratificazione sociale potenzialmente orientata in senso democratico antimonopolistico, va affiancata a suo dire anche una politica delle alleanze che guardi alla principale proiezione politica di questi ceti medi e contadini di orientamento cattolico, e quindi alla Dc. Per questo motivo l’alternativa che ha in mente Berlinguer e che ritiene adatta al contesto italiano, è una «alternativa democratica» e non una alternativa di sinistra, poiché si ritiene fondamentale evitare la potenziale saldatura tra le componenti centriste della società italiana e le destre animate da uno spirito revanscista nei confronti della Costituzione e della Repubblica dei partiti fondata sul lavoro.
Costruire un ampio blocco storico
L’idea dell’insufficienza del ‘51%, che il segretario comunista adombra in quegli articoli, è il prodotto di un mix tra realismo e retroterra gramsciano: oltre ai rischi di golpe da neutralizzare, vi è in Berlinguer la consapevolezza che una trasformazione in senso socialista della società non possa passare da una mera maggioranza parlamentare del “più uno”, necessitando semmai della costruzione di un ampio blocco storico capace di approvare e supportare nella quotidianità il complesso delle trasformazioni e delle riforme strutturali indispensabili a quel fine.
Il compromesso storico e la solidarietà nazionale
Ciò va sottolineato per tenere presente il fatto che il compromesso storico si configura, ancor più che come formula di governo (cosa che è invece la “solidarietà nazionale”, la cui impostazione risente fortemente del clima emergenziale in cui è formulata), come una precisa strategia di transizione al socialismo e di superamento del capitalismo: una strategia conscia, però, dell’esigenza di giocare sulle contraddizioni interne del proprio competitor per favorirne un’evoluzione positiva rispetto al proprio progetto. Come affermato da Giuseppe Vacca circa un decennio dopo quell’esperienza, alla base del compromesso storico vi è un «significativo affinamento della teoria dell’avversario in “situazione democratica” (Gramsci)».
Una versione integrale di questo articolo si può leggere sul sito della Fondazione Di Vittorio