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La storia di una regista italiana brava, apprezzata, di talento, che per una serie di circostanze viene esclusa dal sistema e non può più lavorare. Anche questo è il Festival di Venezia: serve a raccontare una storia di lavoro, o meglio di non lavoro, visto che l’artista è stata estromessa per decenni dal settore. La protagonista è Antonietta De Lillo, regista napoletana classe 1960, che ha presentato il suo film L’occhio della gallina, proprio al festival nella sezione Giornate degli autori. Nel recente passato l’aveva premesso: “Se non mi fanno lavorare, farò un film sulla difficoltà di fare un film”. Eccolo qui.
Il titolo prende spunto da un’immagine infantile: la regista da bambina guardava negli occhi le galline durante le sue escursioni in campagna; un occhio che si chiude al contrario e lasciava sospettare alla giovane di essere pazza. Ma non era matta lei, anzi la sua era normalità, semmai un problema ce l’avevano gli altri. Questa metafora è il punto di ingresso per entrare nella sua storia, incredibile quindi vera.
Vent’anni fa il successo
Andiamo con ordine. Nel 2004, esattamente vent’anni fa, viene presentato come film di chiusura a Venezia quello che resta il migliore risultato della regista: Il resto di niente, tratto liberamente dal romanzo di Enzo Striano, splendido ed elegante racconto per immagini della rivoluzione napoletana del 1799. La protagonista è Maria de Medeiros che veste il ruolo di Eleonora de Fonseca Pimentel, rivoluzionaria ricca dalla parte dei poveri, illuminata, in un’opera in costume anche ostica e a suo modo unica nella produzione italiana del primo Duemila.
Ecco cosa avviene: grande successo del film, a partire dal festival, critiche positive e paginoni sui giornali, candidature alla stagione dei premi e perfino l’elogio del presidente della Repubblica Ciampi.
La denuncia e lo stigma
I problemi arrivano quando deve sbarcare al cinema: il titolo esce solo in 20 sale, la metà di quelle stabilite, senza alcuna pubblicità. De Lillo cita per cattiva distribuzione i produttori, i distributori e l’Istituto Luce, che a sua volta la denuncia per diffamazione chiedendo 250.000 euro di danni. Inizia un lungo percorso nei tribunali, tra sentenze e appelli, fino al 2016 quando la Corte d’Appello di Roma respinge definitivamente la richiesta del Luce. Nel frattempo, su Antonietta De Lillo è calato lo stigma: niente fondi, nessuno la fa più lavorare.
Il suo nuovo progetto, Morta di Soap, ottiene il punteggio sufficiente per essere finanziato dal ministero, eppure i fondi non arrivano e parte un altro lungo rimpallo di aule e ricorsi. Insomma, il senso è: da quando la regista ha osato denunciare alcuni attori della filiera viene espulsa dal sistema cinematografico, costretta ad autoprodursi e trovare strade alternative.
La regista non si arrende
Ma lei ha continuato a fare film e uno di questi è L’occhio della gallina, appunto. Nel documentario-autoritratto la donna si trova in uno studio, insieme alle sue collaboratrici, e ricostruisce le tappe dell’annosa vicenda mentre il simbolo animale si muove in quello stesso spazio. È un lavoro di montaggio che alterna la vita personale, la giovinezza e la scelta di fare cinema, con la vicenda artistica che si forma un tassello dopo l’altro, voce dopo voce con Maria de Medeiros che dialoga e si specchia in Antonietta (anche lei fu “bullizzata” in patria dopo l’unico film da regista, Capitani d’aprile); dagli allori alle interviste televisive per Il resto di niente si passa al silenzio pesante attorno alla sua attività.
Va detto che il videoracconto di Antonietta De Lillo non è mai vittimista e non cade nel lamentoso, anzi il contrario: è una lu
cida ricostruzione degli eventi e di come un sistema può espellerti, un’esposizione dei fatti a tratti stemperata dallo scetticismo dell’ironia. L’amore per il cinema, l’essere disposti a tutto per continuare a farlo è quello che resta. Da vent’anni non le viene prodotto nulla. La regista ha realizzato da sola film indipendenti con budget di 20.000 o 50.000 euro, pur di esercitare il suo mestiere.Storia di una donna e storia di lavoro, certo. Ma anche cronaca di una discriminazione. Alla domanda perché abbia voluto raccontarla, così ha risposto la regista: “Oggi ci sentiamo tutti senza speranza, siamo convinti che il potere possa tutto su di noi. Invece dobbiamo riappropriarci del nostro, di potere, della forza delle nostre capacità. Io non mi sento umiliata. Se non vivevo questa esperienza era meglio, certo, ma mi ha dato una consapevolezza che ora posso mettere a disposizione di tutti”.