Darfur, Sud Sudan, anno 2005, missione del Partito democratico europeo. La guerra civile ha appena visto il suo epilogo con il trattato di pace di Nairobi dopo anni di barbarie e genocidio costati centinaia di migliaia di vittime. Arrivi da Roma e vieni catapultato nelle baraccopoli dove senti forte e stridente il contrasto tra uomini e donne che giungono dalla ricca e pacifica Europa, con i loro completi cachi ben puliti e stirati, e un popolo allo stremo, ancora senza acqua e cibo sufficienti per vivere e che negli occhi continua ad avere la morte, in un luogo, il deserto del Sahara, dove recarsi a un pozzo per abbeverarsi può costare la vita.
Nel campo profughi di Kalma, assolato e polveroso, le abitazioni sono capanne ammassate tra loro, fatte di paglia e plastica, i bagni sono tende che non hanno nulla di igienico.
Da fotoreporter devi fare degli scatti con i quali intessere un racconto e dare un senso a ciò che vedi. Il senso però va oltre i rituali della missione. Sono i volti, le baracche, gli abiti, i giochi dei bambini, l’umanità che ti investe, dolente eppure vitale.
Davanti a te si materializzano tutti i motivi che spingono i migranti a percorrere migliaia di chilometri, a rischiare di finire nei lager libici, a fare traversate in mare che possono costare la vita per arrivare sulle coste italiane. I perché ai quali fingiamo di non sapere rispondere.
Guardo i bambini ritratti nella foto, così piccoli nell'immensità del campo, vedo il loro presente e non riesco a immaginare il loro futuro. Li guardo a distanza di 15 anni e mi chiedo quale sia ora il loro presente, se sono riusciti a sopravvivere, se hanno intrapreso un duro viaggio della speranza, se magari, inconsapevole, ho di nuovo incrociato i loro sguardi tra i tanti che popolano le nostre città e dei quali ignoriamo il doloroso passato.