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Aldo Schiavone, Progresso, il Mulino 2020, pp. 152.
Se la “freccia” del progresso esiste ancora, se l’umanità si muove tuttora in una direzione che ne migliora le condizioni e ne aumenta il benessere tecnico, biologico e (forse) sociale, spiegarlo a chi (e sono in molti) non ne è più convinto o non lo è mai stato, e ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano, non può che essere compito di uno storico. Aldo Schiavone, uno dei nostri studiosi maggiori, lo ha assunto in un saggio che esce nel pieno di una delle stagioni più folli, incerte e demoralizzanti degli ultimi decenni, segnata da una pandemia e da una crisi economica e sociale che coinvolgono, guarda caso, l’intera umanità.
Progresso appare dunque con un tempismo perfetto e impressionante, e mira a dimostrare, con forza e sentimento di argomentazione, che una linea di “perfettibilità”, per usare il lessico di Condorcet - pensatore illuminista che molto credeva nell’idea di progresso -, non solo esiste ma è forte, è insomma positiva e rischiara il nostro futuro, nonostante tutti i “rischi” e i possibili deragliamenti. Libro a tesi netta, quindi, condivisibile o no. Libro ‘giustamente’ (non trovo altro termine) proposto da uno storico, il cui magistero si costituisce non solo nella ricerca, nello studio e nella nozione dei fatti, ma proprio nella consapevolezza teorica e pragmatica del tempo umano e delle sue dimensioni, quelle comprovate, il passato e il presente, e quella che ancora non si vede, il futuro.
Schiavone conosce la storia che abbiamo alle spalle e si interroga sul presente ricorrendo, in fondo, a una griglia d’interpretazione koselleckiana: ossia individua una crisi profonda di orientamento nella società odierna e cerca con le proprie medicine di curarla. Si potrebbe dire che noi, i disorientati, siamo i suoi pazienti, e che Progresso è la terapia che Schiavone ci prescrive. La malattia è presto detta: “Al posto di una rinnovata fiducia nel progresso - scrive l’autore -, è una vera e propria sindrome da futuro quella che sta riempiendo il nostro tempo”. E ancora: “Il pensiero del progresso (...) appare sempre più stabilmente e desolatamente inattuale, fin quasi a renderne impronunciabile persino il nome. Come se il nostro senso e la nostra prospettiva del futuro, e lo stesso significato della storia, fossero stati definitivamente inghiottiti da un grumo di pessimismo, di smarrimento e di incertezza che non si riesce più a sciogliere”.
Come e perché siamo arrivati a questo punto? Parte del libro è dedicata a riepilogare il lungo cammino passato e presente del progresso e della sua stessa idea, dall’esaltazione ideologica ottocentesca, motivata da un’accelerazione tecnica che portò quel secolo ad aprirsi con “velieri e candele” e a chiudersi con “le automobili, il telefono, l’elettricità”, fino alla spinta novecentesca, secolo di una tecnologia ancora più rapida e potente, ma secolo anche connotato da un “procedere intermittente e spezzato”, da “un lato oscuro e tempestoso” destinato a travolgere il “clima mentale” dell’ottimismo, o meglio a ucciderlo in due guerre globali e nei genocidi. È in quel momento, e con una ripresa a partire dagli anni Settanta che arriva fino a oggi, che Schiavone individua le radici di una crisi, di una separazione tra l’oggettivo avanzamento tecnico e la nostra “incapacità” di adeguarci ad esso e condividerlo.
Qui l’autore ricorre a termini precisi: contrasto, scissione, divaricazione. Da un lato la potenza impetuosa della scienza e della tecnologia, dall’altro l’assenza di un progetto politico, culturale, umanistico che sappia generare coscienza del progresso e inclusione sociale. Si tratta, è evidente, dei nostri anni. I primi venti del secolo presente, scanditi da nuove esorbitanti innovazioni che stanno per portarci in una ulteriore dimensione di vita, ma al contempo da una crisi strutturale della redistribuzione economica, della centralità del lavoro, della democrazia e dell’uguaglianza. È qui e ora che l’idea di progresso va in coma, e Schiavone lo sa benissimo quando descrive uno “scompenso strutturale, sistemico, fra potenza e ragione”.
Dunque sul piano della tecnologia, della scienza, della medicina, il progresso séguita. Schiavone, in una postfazione aggiunta nel culmine del Covid-19, ne ravvisa le prove anche nella crisi sanitaria presente, nella collaborazione planetaria tra scienziati e medici per il bene del genere umano. Manca però una parte importante, troppo importante per ritrovare quella fiducia nel futuro che l’autore auspica: l’ingrediente sociale e politico. “Non sappiamo ancora esattamente (...) che strada seguire per rianimare e ridare slancio e sicurezza alle nostre società”.
Eppure (facciamo un passo indietro) lo storico, nelle pagine più belle del saggio, non può esimersi dal ribadire che se guardiamo alla storia del mondo dal nostro punto di vista, dunque dalla prospettiva dell’uomo, ossia di una “intelligenza autocosciente” comparsa a un certo punto su questo pianeta e poi cresciuta e sviluppatasi, esiste “una progressione irreversibile”, esiste “una vicenda che si è svolta in modo da poter essere descritta solo attraverso il paradigma del progresso”. E questo concerne anche il dominio sulla natura, che Schiavone non mette in discussione, invece mantenendolo nel cuore dell’avanzamento umano.
Sotto lo sguardo della lunga durata e della tecnica la storia mostra “una direzione, si muove secondo una freccia: anche se a noi spesso non appare così”. Su quale bersaglio atterrerà è impossibile dirlo, ci ammonisce l’autore, non possiamo confondere la fiducia nel futuro con la conoscenza impossibile dell’avvenire. Ma Schiavone rammenta che siamo già sull’orlo di una trasformazione epocale che unirà quanto fino a oggi era separato: natura e cultura, corpo e mente. Una stagione postumana o transumana nella quale, sempre grazie alle conquiste del progresso de quo ante, arriveremo a “staccare completamente la vita dell’umano dalla naturalità della specie”, ci congederemo dalla “selezione naturale” e faremo dell’umano “ciò che noi vorremo che sia” in un’opera di costante “editing genetico”.
È, in fondo, il tema dei temi, ed è proprio sul suo tessuto che si cuce e scuce il destino di quella fiducia nel futuro patrocinata da Schiavone. Ragionando di questo, infatti, non possiamo avere certezza che il futuro prenda la strada dell’utopia o della distopia. Esattamente perché manca quell’ingrediente fondamentale alla pietanza progresso di cui parlavamo sopra: la ragionevolezza, la sfera collettiva, l’interesse democratico di tutti e non di pochi. Il che, ad esempio, come osserva lo stesso Schiavone, si declina immediatamente nella “questione dell’eguaglianza genetica”. Per completare l’opera (ricostruire fiducia nell’avvenire), per spingere l’Angelus Novus di Klee e Benjamin - sulle cui considerazioni si apre il lavoro di Schiavone - a guardare il progresso senza considerarlo “tempesta”, la scienza e la tecnica non bastano. Servono invece almeno altre “due armi”, suggerisce l’autore: pensiero e politica. Politica intesa come democrazia e inclusione. Pensiero inteso come un “nuovo umanesimo” grazie al quale noi ci si possa elevare dall’individuale al collettivo così da entrare in una “soggettività globale”, impersonale, per “esprimere un valore infinito, quello della vita autocosciente, unica (per quanto oggi ne sappiamo) nell’infinità dell’universo”.
Sono argomentazioni, queste ultime, di fascino indubbio, peccato che manchi nella riflessione sul ‘come costruire il futuro’ un ragionamento sul ruolo del lavoro e sulla sua auspicabile centralità anche in avvenire. Ma non è più tempo di chiedere agli storici (o erano i filosofi?) di cambiare il mondo: è già fondamentale che lo sappiano interpretare. E Schiavone lo ha fatto in modo autorevole e persuasivo.
La citazione
«Il capitale ha unificato il pianeta con la sua vittoria. E tuttavia questo risultato ha anche azzerato la percezione, peraltro faticosamente conquistata, della storicità delle forme economiche capitalistiche (ripetendo in una certa misura quanto accadeva prima del marxismo), facendole apparire di nuovo (succedeva così agli inizi del XIX secolo) come figure naturali ed eterne, nel cui segno viene tolta ogni profondità alla nostra prospettiva e si arresta, come innanzi a un’insormontabile barriera, il nostro sguardo. Quasi che la razionalità capitalistica debba coincidere totalmente e senza margini con la razionalità stessa dell’umano. Una sovrapposizione, apparentemente senza spiragli, che produce tensioni, contrasti, bisogni inappagati di governabilità e di alternative realistiche e praticabili.
Per fronteggiare una simile situazione, e venire a capo di questo squilibrio, sarebbe stato necessario un grande sforzo intellettuale e politico – simile a quello compiuto dal marxismo e dai movimenti riformatori tra Otto e Novecento in Europa e in America capace di annullare gli effetti di questa deriva: per progettare una forma politica ed etica del mondo in grado di reggere il peso del proprio sviluppo tecnologico e di proiettarlo indefinitamente nel futuro, oltre la chiusura accecante della fitta siepe che ce lo sta nascondendo.
Nulla di simile è finora accaduto».