“Si dà indubbiamente, ma è tuttora misterioso, un legame fra emarginazione e creatività. Si direbbe che la genialità innovativa, o addirittura l’intuizione profetica, sia il compenso di chi, rispetto al proprio tempo, dia prova di essere in grande anticipo e subisca per questo un pressoché totale isolamento. Il merito di questo libro consiste nell’illustrare questa verità valendosi del caso di Adriano Olivetti. L’argomento specifico, su cui l’Autrice correttamente insiste, riguarda la funzione del libro in una società formalmente democratica.

Per Olivetti il libro è lo strumento-principe della comunicazione propriamente culturale, non solo informativa, ma essenzialmente auto formativa e generatrice di auto-consapevolezza, ed pertanto, in questo senso, il mezzo fondamentale per il progresso dell’intelligenza umana, nel senso preciso, etimologicamente, dell’intus legere, del comprendere fino in fondo le situazioni e le varie esperienze dell’uomo e della donna in società.

Il libro non è, dunque, un lusso aggiuntivo, un fronzolo, e non è neppure il privilegio di pochi sapienti che vivono di rendita sulla fatica di schiavi analfabeti.

In questa prospettiva, Olivetti sovvertiva, pur non essendone del tutto consapevole, la posizione platonica elitaria, che contrassegna tutta la filosofia europea: non l’epistéme dei pochi, che si contrappone alla dòxa dei più, degli ignari pollòi, bensì la conoscenza partecipata e la cultura diffusa, che rendono possibile e inverano sul piano politico pratico una democrazia “compensata” o “integrata”, non solo come procedura formale, riassunta nel detto tot capita tot sententiae, secondo le accademiche teorizzazioni di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, vale a dire una democrazia come procedura, ma anche come contenuto, non immemore delle sue origini storiche, caratterizzate dalle lotte, anche cruente, per l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Per queste ragioni, per Adriano Olivetti, il libro fa parte, intrinseca e necessaria, del salario operaio. Ne è la parte culturale, la pars sanior, che completa, per così dire, quella monetaria. Di qui il progetto olivettiano, naturalmente non particolarmente ben visto dagli azionisti della Ditta, preoccupati per i loro dividendi, di una efficiente e aggiornata biblioteca in ogni paese e villaggio del Canavese, da Vico a Tavagnasco, da Chiaverano a Palazzo, là dove operai e operaie vivono, si incontrano, trascorrono nella “comunità concreta” il loro tempo di vita.

I centri comunitari e le biblioteche comunali non sono, dunque, l’idea folle di u n riformatore paranoico. Con la cultura diffusa e la conoscenza partecipata, essi anticipano l’esigenza fondamentale della democrazia odierna, Questa democrazia, al di là e contro l’ottimismo dell’ufficialità, è in realtà in pericolo. L’impersonale tirannide tecnologica la sta minando alla base. La comunicazione elettronica è essenzialmente auto-referenziale; comunica non più “con”, bensì “a”, cioè a tutti e a nessuno. Paradossalmente, crescono l’iperconnnessione e la solitudine.

Si è perso, con il faccia a faccia, il linguaggio del corpo, il senso della comunità, il rapporto inter-personale valido in sé e per sé, al di là di ogni calcolo utilitario. L’economia di mercato è così forte da tracimare e trasformare la stessa società in società di mercato, vale a dire in non-società. La democrazia non cade, non muore mai per colpi dall’esterno, la morte della democrazia è sempre un suicidio. La democrazia muore per auto-consunzione morale, conformismo generalizzato, esaurirsi dello spirito critico grazie agli effetti speciali dell’audiovisivo.

Con un anticipo di almeno quarant’anni, Olivetti prevede e descrive la crisi dei partiti politici, non ha bisogno di aspettare il moralismo di Mani Pulite; denuncia la rottura dell’equilibrio eco-sistematico e la cementificazione che impedisce al territorio di “respirare”, la dialettica macchina-uomo, ossia il rapporto perverso fra le macchine che servono e l’uomo che viene asservito, il potere aziendale accentrato al vertice mentre si sta passando dall’operaio in tuta blu all’operatore in camice bianco e l’azienda non può più funzionare, se non socializzando il potere come premessa e condizione di un atteggiamento collaborativo non prevedibile dai contratti sindacali, da parte di tutti i partecipanti al ciclo produttivo, dall’amministratore delegato all’operaio comune, tanto da costituire un’autentica “comunità di fabbrica”.

La diffusione capillare del libro e delle biblioteche comunali diventa in queste condizioni un imperativo fondamentale per la partecipazione consapevole e responsabile di tutti, uomini e donne, al processo sociale e al recupero della comunità come nucleo vivo della società di domani. In questo senso, questo libro è altamente originale e va letto e discusso anche con riguardo ai servizi sociali, da concepirsi come assolutamente autonomi rispetto a qualsiasi intento paternalistico manipolativo, e con particolare attenzione all’urbanistica, alla difesa dell’ambiente contro la speculazione edilizia selvaggia, che ha duramente segnato il dopoguerra italiano.

Questo libro si rivolge a tutti coloro che non intendono limitarsi a sterili lamenti o rimpianti, ma decidano seriamente di impegnarsi, oggi, per aiutare la transizione dalla hominitas alla humanitas, e per realizzare quella che Adriano Olivetti amava chiamare Humana Civilitas”.