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Nei giorni scorsi è andata in scena al Teatro Argentina di Roma l’ultima replica di Accabadora, lo spettacolo per la regia di Veronica Cruciani, ispirato al libro di Michela Murgia. E se le date hanno un significato nelle trame della storia, quel 12 giugno arriva dopo un anniversario importante, quello del 3, il compleanno della scrittrice scomparsa poco meno di un anno fa. Il monologo, scritto da Carlotta Corradi, prende vita a partire dalle pagine del romanzo, immaginando di diventarne un prolungamento.
In scena Maria, interpretata da un’intensa Anna Della Rosa, dialoga con Bonaria Urrai, il vero centro di gravità di una storia in cui dentro c’è la vita, la morte, la maternità, la fedeltà al ricordo di una passione. Tutti temi e tutte emozioni già vivide nel libro, che in un’ora e qualcosa di monologo prendono vita attraverso il corpo e la voce di Anna Della Rosa, e non solo. La regia di Veronica Cruciani, sulle prime sembra lasciare alle parole nude il compito di tenere in piedi la narrazione. Ma poi, a sorpresa, arriva dal fondo l’immagine di una donna, che è la stessa Maria ma è anche e soprattutto Bonaria, sua zia, la sua madre adottiva, il suo doppio. Un ologramma vero e proprio che sorprende lo spettatore, lasciandolo a chiedersi, per i primi minuti, se si tratti di una presenza fisica, di un video o di una retroproiezione.
Il gioco di luci, gelatine colorate che inondano un fondale bianco, infondono sulla scena atmosfere oniriche, in quella terra di mezzo dove la realtà incontra i sogni, i ricordi, i pensieri. Le sonorizzazioni di Hubert Westkemper, infine, trascinano in un tumulto interiore che lo spettatore vive sempre di più all’unisono con la protagonista in scena.
Michela Murgia racconta una storia ambientata in un paesino immaginario della Sardegna, dove Maria, all’età di sei anni, viene data a fill’e anima a Bonaria Urrai, una sarta che vive sola. Ultima di quattro figlie femmine, è apertamente indesiderata da una madre che dice “potevo farne tranquillamente a meno, tre già mi bastavano”. E in questa dimensione di invisibilità e di abbandono non dichiarato la vedrà Bonaria, che invece vive avvolta nel suo lutto eterno per un amore scomparso troppo presto, e in lei riconoscerà “sua figlia”.
Bonaria ha però un rapporto complesso con la morte, perché fa l’accabadora, parola di origine sarda (e dallo spagnolo acabar, finire) che pratica un’eutanasia ante litteram, aiutando le persone in fin di vita – o infelici di vivere – a morire. Dopo un’infanzia e un’adolescenza passate nell’ammirazione della sua madre adottiva, Maria fugge a Torino per cambiare vita, una volta scoperta la verità sul conto della nuova madre. E sarà lì che il suo passato la ritroverà, con la notizia che Bonaria, dopo un ictus, è rimasta incapace di fare tutto.
La drammaturgia di Carlotta Corradi parte proprio dal ritorno di Maria sul letto di morte di Tzia Bonaria, in una resa dei conti tra rancore e amore, per arrivare alla nemesi: quello che la protagonista si troverà a (non) voler fare. Lo spettacolo, così come già il romanzo della Murgia, affonda le mani in più di un tema cruciale. In primis quello dell’eutanasia. Ma c’è anche il senso del lutto, del legame testardo con ciò che è morto e che non può che renderci altrettanto morti che camminano, se non lo elaboriamo e non lo superiamo. E poi, un bellissimo viaggio che esplora i confini tra il materno e il non materno, tra il desiderio di essere madre e il senso di estraneità al sangue del proprio sangue.
Passaggi e parole che spingono, oggi, a una riflessione profonda sul tema dell’aborto da un lato, e dell’adozione dall’altro. Ancora di più in un paese come l’Italia, che non riesce ancora a fare i conti con un’idea della maternità e della paternità svincolate dal genere, dalla biologia, dal concetto di coppia tradizionale, e soprattutto dal giudizio di valore sulle scelte personali. Maria e Bonaria stringono un legame che vale più di quello del sangue e che restituisce all’adozione la stessa forza della filiazione biologica.
Uno spettacolo intenso, che avrebbe potuto esserlo ancora di più se quella lingua sarda, così diegetica e necessaria per il racconto di questa storia, fosse risuonata più fluida e naturale dalla voce dell’attrice. Si percepisce, invece, in alcuni momenti, forzata, frutto di un esercizio e di una padronanza non completa del linguaggio e delle intonazioni che ne sono proprie.
Questo elemento a volte dissonante, in alcuni momenti distrae, deconcentra, spinge lo spettatore a un distacco dalla storia che non vorrebbe sentire. Unica nota fuori posto, in un’armonia che spinge al pianto a scoppio ritardato. Quando gli applausi sono finiti, il teatro si è svuotato, e ci si dirige in macchina verso casa. Quel misto di emozioni contrastanti e vivide che solo gli spettacoli autentici sanno dare.