Il 3 novembre del 1957 muore Giuseppe Di Vittorio, antifascista, politico e sindacalista, segretario generale della Cgil dal 1944 al 1957. Si spegne a Lecco, dove si era recato con la moglie Anita per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro.

Ricorda Pio Galli (dirigente della Cgil e della Fiom, nel 1957 segretario della Cdl di Lecco) nel suo libro Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico, pubblicato nel 1997: “Ero convinto che dicesse di no perché aveva sicuramente impegni più importanti. Invece accettò. Doveva essere da noi il 3 novembre e partire il 5 per Mosca... Lo andammo a prendere a Milano alla Stazione centrale. Arrivò alle 6 del mattino. Veniva dalla Puglia, dov’era stato per un giro di comizi… Era un uomo grosso con un fisico tarchiato e ci si aspettava un vocione da tenore, invece aveva una vocetta sottile. Ma era persuasivo. Parlava a centinaia di persone come se stesse dialogando con una sola... Non si sentiva bene…  Dopo averlo accompagnato in albergo chiamammo i migliori medici disponibili”.

Ma non c’è più nulla da fare, e Peppino muore. Sette anni prima di Togliatti, 27 anni prima di Berlinguer, la sua morte è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana.

Il viaggio della salma da Lecco a Roma è indimenticabile. A ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze.

“Quanta gente attendeva Peppino - ricorderà Anita - Vollero portarlo a braccia fino alla sede della Confederazione del lavoro in corso d’Italia. Peppino a casa non venne!... La sua, la nostra casa era vuota... in camera da letto erano rimasti i passaporti e i biglietti per la Cina, quei biglietti che ormai non servivano più! Le valigie già pronte per il viaggio giacquero parecchi giorni abbandonate sul pavimento. Su una sedia la sua giacca da camera attendeva di essere indossata. Nelle ore che seguirono, molte persone illustri vennero a visitarmi. Lavoratori sconosciuti ed amici di vecchia data vennero ad esprimermi il loro dolore. Dalla Puglia fu un susseguirsi di amici… Venne quasi tutta Cerignola. Valanghe di telegrammi, di lettere, di messaggi vennero a lenire il mio immenso sconforto. La camera ardente, allestita nella sede della Cgil, fu meta di un vero e proprio pellegrinaggio di amici ed avversari politici (…) Vennero a salutarlo i presidenti dei due rami del Parlamento italiano, ministri, scrittori, scienziati, sindacalisti e uomini politici. Vennero preti e suore, donne del popolo, ragazzi, operai, impiegati, professionisti. Tutti sostarono ore intere in lunga fila, per rendere l’estremo omaggio al loro difensore! Il 6 novembre si svolsero i funerali. Mi proposi di essere ancora più forte. Riuscii, a testa alta come egli avrebbe voluto, a fare tutta la strada a piedi, fino alla sua ultima dimora... Al mio si univa il pianto disperato, l’immenso dolore di tutti: Peppino ci hai lasciati!, si sentiva mormorare tra la folla. Non dovevi andartene! Anita fatti coraggio! Siamo con te. Un vecchietto addirittura volle legare un garofano alla ruota del carro funebre. Tieni Peppino, ti seguirà fino al cimitero! Migliaia di corone erano giunte da tutta Italia e dall’estero. La strada che segnava il percorso del funerale era completamente cosparsa di fiori. Erano fiori di tutti. Era l’espressione di tutto un popolo che al suo figlio migliore porgeva il suo estremo saluto”.

“Il dolore della folla si è espresso profondo e acuto come quello di una famiglia”, scriverà Paolo Spriano. “Forse neppure Di Vittorio immaginava di avere tanti amici, tanta gente di ogni ceto sociale che se ne partiva ora di casa, e veniva qui a gettargli un fiore, e dirgli che gli voleva bene”.

“Per ore e ore - riporterà l’Unità - quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in Corso d’Italia, trasformato in camera ardente. Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio (…). C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali (…) Tutti i negozi, lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”.

“Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze - dirà Bruno Trentin - e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e - retorica a parte - semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre “provocatorio”, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta - e in questi ultimi tempi, spesso - questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun “sistema”, in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente “la sua ragione d’essere”. Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana “la ricchezza che poteva essere prodotta” - e che non lo era - piuttosto che la “povertà” esistente. Ed era l’idea della “ricchezza” ad entusiasmarlo. Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre “al corrente” delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir “escluso”, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea. Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno”.

Un uomo, un politico, un sindacalista che ancora continua a mancarci con la piena coscienza del vuoto profondo che ci ha lasciato. Un vuoto che cerchiamo di colmare ricordandolo, leggendolo, studiandolo, non dimenticando mai gli insegnamenti ricevuti nella speranza e nell’impegno di tradurli in fatti concreti.

“Lavorate sodo - ci ha detto - e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, compagni”. Buon lavoro, compagne e compagni.