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Ne parliamo poco, almeno in Italia, ma sta diventando realtà: sono sempre più numerosi i lavoratori che decidono di dimettersi, e la maggior parte di loro sono i cosiddetti lavoratori poveri, persone che alla fine del mese guadagnano talmente poco da ritenere che il gioco non valga la candela. Di questo si occupa Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi Stile Libero Extra, pp. 288, euro 17,50), il primo studio italiano interamente dedicato alla materia, confrontando dati provenienti anche da altri Paesi. Numeri che certificano un fenomeno in aumento dall'inizio di questo decennio, legato anche, ma non soltanto, al periodo del Covid. Su questo e altro abbiamo interpellato Francesca Coin, sociologa, autrice del volume, da tempo impegnata nello studio del rapporto tra lavoro e diseguaglianze sociali, attualmente docente presso il Centro di Competenze Lavoro Welfare Società del Dipartimento di Economia Aziendale Sanità e Sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera.
Partiamo dalla diffusione del libro, visto che dopo nemmeno un mese dalla sua uscita è già in ristampa. A cosa è dovuto questo impatto così forte riscontrato nella comunità dei lettori?
Credo soprattutto perché sia l’unico sul tema. Sinora sono stati pubblicati libri di argomenti attinenti, ma non specifici sulle grandi dimissioni, anche se se ne parla ormai da qualche anno. Forse in molti lo hanno considerato un fenomeno estemporaneo, scoraggiando eventuali pubblicazioni, mentre io ho cercato di dargli un respiro storico, trattandolo come un processo di lungo corso. Ho rilevato un grande interesse anche durante le presentazioni del volume, dove incontro molte persone soggettivamente coinvolte dall’argomento, che stanno pensando alle loro dimissioni, che hanno bisogno di parlarne con qualcuno ma non hanno la possibilità di farlo, perché il dibattito comune è tutto volto al disconoscimento del fenomeno, o alla banalizzazione dello stesso.
Nella tua analisi racconti anche dell’anomalia italiana rispetto ad altri Paesi come Stati Uniti, Cina, India, visto che da noi a coloro che rinunciano al lavoro si affianca il dato di circa 5 milioni di disoccupati. Cosa sta accadendo?
Si tratta di un quadro diverso rispetto a quello per l'appunto degli Stati Uniti, dove nel biennio 2021-2022 a una dimissione si potevano comparare due potenziali posti liberi di nuova occupazione. In Italia invece abbiamo un posto ogni cinque disoccupati, una bella differenza... E questo scoraggia, perché l’elevato tasso di disoccupazione a chi pensa di abbandonare il lavoro non fa sperare di trovare di meglio, anzi. Questo però è l'aspetto politicamente interessante, non marginale: perché ci si dimette comunque, e dovremmo chiederci come mai. La mia prima risposta sono i salari bassi, un lavoro sempre più povero. Se ne discute poco, ma è un’emergenza nazionale, anche perché da qui nascono discriminazioni, forme varie di mobbing, una scarsa possibilità di controllare turni e orario da parte dei lavoratori. Ma è la scarsa remunerazione il maggior disincentivo al lavoro, il grimaldello che scardina gli equilibri.
Nelle tue conclusioni accenni ad alcune previsioni di Bruno Trentin in merito a un antisindacalismo in costruzione, ora divenuto realtà. Quale ruolo può svolgere il sindacato italiano in questo processo di trasformazione?
Mi permetto di dire che sarebbe già importante capire cosa non sia andato bene, anche se oggi parlare di “sindacato” vuol dire tutto e niente: confederali, di base, indipendenti. In questo senso negli ultimi anni le organizzazioni sono proliferate, cercando di tutelare nuove categorie, emblematico il caso dei rider. Ad ogni modo, è difficile generalizzare. Tuttavia le fughe dal lavoro sono anche l’esito di una progressiva debolezza dei movimenti del lavoro organizzati, autonomi o meno. Vero anche che in Italia ci troviamo di fronte a una situazione strutturale, dove le piccole imprese hanno reso più difficile la presenza sindacale, e dove troppo spesso abbiamo sottovalutato la cultura della violenza antisindacale. Da questa situazione sono scaturite varie forme di reazione, tra cui il rifiuto del lavoro, forme di assenteismo, in particolare proprio là dove manca un’organizzazione sindacale, che dunque in determinati contesti va ripensata, o pensata dall’inizio. C’è da capire chi ha le energie e l’interesse per farlo, a cominciare dal sindacato stesso.
Nell’introduzione al libro scrivi che per i movimenti ambientalisti “la fine del mese e la fine del mondo sono la stessa lotta”, indicando un ripensamento virtuoso del mondo del lavoro quale sostegno nella battaglia per la crisi climatica…
In verità ho recuperato uno slogan mutuato dall’incontro tra realtà quali Fridays For Future e il Collettivo di Fabbrica Gkn durante questo inverno. Quello che penso io è che questa frase abbia un duplice singificato: da un lato ritrovare un senso sociale di quello che si fa, perché ormai tutto sembra ridotto soltanto al rapporto tra fatturato e profitto. Sarebbe invece importante recuperare un senso del lavoro, un ruolo sociale, che sia utile per la società. Poi c’è il discorso “fine del mese-fine del mondo” anche in rapporto a un modello economico inverso, che lega la riproduzione di nuclei famigliari a quella del nostro pianeta. Secondo me questa è una delle molle nell’approccio prepolitico di questi tempi, caratterizzato da una forma di riflessione intellettuale molto forte, che in estrema sintesi possiamo riassumere con il desiderio di voler scendere da una macchina impazzita.
Da questo punto di osservazione, come sono orientati i giovani che si affacciano al mondo del lavoro?
Le nuove generazioni vogliono capire dove investire il proprio tempo, in quale modo occupare la propria vita, come riempire la propria quotidianità. Da qui il tentativo di riallineare il lavoro ai valori individuali, coniugandoli con quelli della società. Questo ormai è un fatto politico; anche se, specie nella destra italiana di oggi, mi pare si faccia fatica a riconoscerlo, e ad accettarlo.