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Un libro fotografico dedicato alla figura di Giuseppe Di Vittorio, mio nonno, poteva essere impostato con tagli diversi: mettendo a fuoco il grande leader sindacale con la sua indiscussa capacità oratoria; oppure il dirigente politico che ha saputo indicare, con coraggio e originalità, la direzione che il movimento operaio avrebbe dovuto seguire; o ancora, un profilo biografico costruito attraverso quelle foto che sapessero offrire un ritratto più privato, più intimo, della sua vicenda umana.
Il bel titolo scelto per questo volume ci offre la chiave interpretativa che ci aiuta a capire meglio il tratto fondamentale del suo rapporto con quello che lui chiamava il «popolo lavoratore». Quella ‘connessione sentimentale’ fatta di affidamento e riconoscimento reciproco, di un’inattaccabile fiducia, della certezza che Peppino comprendeva come nessun altro i bisogni dei lavoratori, e prima di tutto dei braccianti, con i quali aveva condiviso il peso della miseria e dell’arretratezza insieme a una granitica volontà di riscatto. Questo rispecchiamento reciproco faceva sì che ogni tappa della vita di Di Vittorio (esiti di lotte e di trattative, così come avvenimenti familiari) venisse immediatamente vissuta come parte della loro propria vita. Quello che accadeva a Peppino accadeva a loro.
A questo proposito, mi fa piacere ricordare qui un episodio dei primi anni Duemila. Come spesso accadeva, avevo accompagnato mia madre, Baldina, che si era recata a Cerignola per un’iniziativa. Baldina era molto amata non solo in quanto figlia di Peppino, ma anche per il lavoro politico che aveva svolto come parlamentare del Pci eletta in Puglia. Al nostro arrivo, fummo travolte dall’affetto di compagne e compagni che scandivano il suo nome cercando di abbracciarla. Istintivamente, tentai di proteggere la sua fragilità dal vigore affettivo di quella piccola folla. Il mio tentativo fu però scambiato per un’indebita intrusione. Fu allora che mi si avvicinò con un’espressione sospettosa un uomo anziano, che poi seppi essere Michele Sacco, ex bracciante e compagno di lavoro di Di Vittorio (più volte ricordato da Giovanni Rinaldi in questo libro). Sacco mi guardò con irritazione e mi chiese: «Ma tu che cosa sei a Baldina?». Alla mia risposta, «sono la figlia», esclamò «Silvia!». Con rapido gesto, si cavò di tasca il portafoglio e ne estrasse una foto che mi ritraeva da bambina assieme a mia madre e a mio nonno. Una foto che portava sempre con sé. Proprio come se io fossi una sua nipote.
E posso anche aggiungere – ancora ricorrendo ai racconti di mia madre – che, sempre negli anni Cinquanta, c’era, fra i lavoratori di Cerignola come di Minervino Murge, chi sceglieva Roma come meta del proprio viaggio di nozze, proprio per «andare a trovare a Peppino».
Tutto questo ci parla di un’irripetibile simbiosi fra azione collettiva e affetti privati. Tuttavia, sarebbe sbagliato se, davanti alla potenza di questa specialissima relazione, fossimo indotti a mettere in secondo piano la forza innovativa e la capacità di visione mostrate da Di Vittorio in successivi passaggi della sua azione di dirigente e, in particolare, nel suo Piano del Lavoro (1949). Piano che fu concepito nella prospettiva di integrare una maggiore partecipazione della classe lavoratrice allo sviluppo dell’economia nazionale, riconoscendole un ruolo decisivo nella ricostruzione postbellica. Un progetto che voleva tenere insieme lotta all’analfabetismo, difesa dei diritti dei «cittadini lavoratori» e ripresa dell’idea post-risorgimentale della funzione nazionale dello sviluppo del Mezzogiorno. Non è quindi per caso che Vittorio Foa, nel suo libro Il Cavallo e la Torre (1991), ebbe a definire Di Vittorio «il mio solo maestro di politica».
Sul settimanale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, a otto giorni dalla scomparsa di Di Vittorio, apparve un necrologio di particolare sensibilità e capacità intuitiva che seppe cogliere il nesso tra la sua umanità e la sua statura politica: «È stato il più popolare sindacalista che l’Italia abbia mai avuto, uno degli uomini politici più umani e di più larghe vedute. Il fanatismo e lo schematismo ideologico non erano mai riusciti a soffocare la impronta liberale del suo socialismo vissuto. E la sua vita – da bracciante a presidente della Federazione sindacale mondiale – è di quelle che possono diventare esemplari per la costruzione della tradizione civile di un Paese».
La connessione sentimentale fra Di Vittorio e i lavoratori fu viva fino all’ultimo. Essi potevano vedere nel suo percorso biografico, così ben sintetizzato dalle parole appena citate, non solo una speranza, ma un esempio realizzato di riscatto. Uno di loro che, restando umanamente quello che era stato, aveva mostrato di cosa può essere capace un lavoratore e quanto grandi possano essere i suoi meriti.
Una voce registrata durante i suoi funerali, e inserita nel bel documentario dedicatogli da Carlo Lizzani, ci comunica il dolore per la perdita di Peppino: «Lo volevano bene pure le pietre… Nunsaccio com’ha fatto a murì». Perché un affetto così grande avrebbe dovuto trovare il modo di tenerlo in vita.