PHOTO
La nuova maggioranza di governo, affermatasi alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, ha in più occasioni ribadito la ferma volontà di proseguire e, soprattutto, portare a termine il per-corso dell’autonomia differenziata, avviato nel 2017 da Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e seguito da altre Regioni. Dichiara di volerlo fare senza dividere il Paese, nel quadro di una coesione nazionale e nel rispetto della perequazione delle risorse. Precisazioni, queste ultime, che sembrano contraddire i toni e le rivendicazioni di quei presidenti di Regione, espressione della stessa compagine politica, che, invece, avevano rivendicato la volontà di trattenere le risorse prodotte sul loro territorio (il fantomatico «residuo fiscale») e aver piena competenza in tutti gli ambiti di governo (le famose 23 materie) previsti dal Titolo V della Costituzione, senza curarsi troppo delle conseguenze oltre i propri confini regionali.
Un cambiamento di impostazione necessario nel momento in cui si ricopre un ruolo nazionale e non più locale, ma non sufficiente a fugare dubbi e preoccupazioni su un percorso che porterà inevitabilmente a un’ulteriore frammentazione delle politiche pubbliche. Esattamente il contrario di ciò che serve nel drammatico periodo di crisi che stiamo attraversando. Le difficoltà economiche e sociali dell’Italia, dopo i due anni di emergenza pandemica e con la crisi geopolitica in corso, sono innanzitutto causate dalle disuguaglianze – profonde e insostenibili – già esistenti nell’esigibilità dei diritti fondamentali. Per questo il legislatore dovrebbe guardarsi bene dall’acuirle.
La Cgil, fin dall’inizio, ha considerato improponibile riconoscere maggiore autonomia ad alcune Regioni, senza ridurre prioritariamente i divari esistenti e senza definire un quadro normativo unitario – fatto di Livelli essenziali delle prestazioni, leggi di principio e sistema perequativo – capace di rendere effettivi, in tutti i territori, i diritti civili e sociali fondamentali, di garantire ovunque l’accesso alle prestazioni, agli interventi e ai servizi pubblici necessari ad assicurare a chiunque una vita libera e dignitosa, di redistribuire le risorse non in base alla spesa storica o a percentuali prestabilite né tantomeno in base alla capacità fiscale di un territorio, ma solo e soltanto in ragione di quanto serve in quella determinata area del Paese per attuare tutte le politiche adeguate a garantire tutela della salute, diritto all’assistenza, all’istruzione, al lavoro, alla mobilità…
A distanza di cinque anni dall’inizio di questo dibattito – cui non ci siamo mai sottratti, avanzando le nostre proposte e le nostre critiche e cercando un’interlocuzione, non sempre ottenuta, con i differenti governi che si sono susseguiti e con le amministrazioni regionali – non solo siamo ben lontani dall’aver definito quel quadro normativo unitario che – a prescindere dall’attuazione o meno dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – deve essere comunque realizzato, ma ci troviamo in una ulteriore fase di crisi economica e sociale di cui è difficile prevedere la fine e anche le ricadute sulla condizione materiale di vita e di lavoro delle persone nel breve, medio e lungo periodo. Un tornante storico in cui i divari tra i territori continuano a crescere in modo inarrestabile e che richiede, ancor più di prima, la definizione di politiche nazionali e di un sistema istituzionale che siano coerenti con gli obiettivi che, come Paese, vogliamo darci.
Ambiamo a essere un Paese fondato sulla solidarietà o sulla primazia di un tornaconto di parte? Sulla redistribuzione delle risorse affinché nessuno rimanga indietro o sulla presunzione di autosufficienza di chi si illude di potercela fare da solo? Sulla garanzia dell’uniformità dei diritti per tutte le persone o su diritti esigibili in ragione di dove si è nati? Sulla capacità della Repubblica di rimuovere ovunque gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana o sulla variabilità geografica dei diritti di cittadinanza? Vogliamo un Paese che finalmente torni a perseguire l’uguaglianza sostanziale dei suoi cittadini o che si rassegni alla continua crescita delle disuguaglianze?
L’autonomia differenziata, alle condizioni date, andrà a incidere sulla vita reale di lavoratori e lavoratrici, di pensionate e pensionati, di studenti e studentesse, di tutte le persone la cui accessibilità a un diritto civile e sociale potrebbe dipendere dalla regione di residenza e non dall’essere, a prescindere, una cittadina o un cittadino italiano. È in discussione lo Stato in cui vogliamo vivere e che Paese vogliamo essere, il rapporto che ci deve essere tra Stato centrale ed enti locali, tra Regioni e Comuni, tra istituzioni e persone, tra rap-presentanti e rappresentati. Rischiamo di andare ben oltre la valorizzazione della prossimità, della sussidiarietà e della capacità politica di dare risposte diverse in contesti diversi per raggiungere un comune obiettivo; rischiamo di approdare, invece, a un «si salvi chi può» e a un ripiegamento localistico entro i confini regionali, incuranti di ciò che accade appena più in là.
Dobbiamo, inoltre, essere consapevoli che il passo tra il privilegiare le regioni più ricche e il far prevalere le classi sociali più forti, abbandonando al loro destino i territori e le persone più deboli, è molto breve se si afferma la cultura dell’egoismo e della separazione. Si è arrivati a mettere in discussione persino l’unità del sistema di istruzione, ipotizzando la regionalizzazione della scuola. Contro questa deriva ci batteremo con tutte le nostre forze. La nostra posizione è chiara: non è questo il tempo di adottare provvedimenti che aumenterebbero le diseguaglianze territoriali, è semmai il tempo di adottare provvedimenti straordinari per rimuovere i divari esistenti, di definire una cornice unitaria di princìpi e prestazioni non derogabili, da garantire in modo uniforme ed effettivo su tutto il territorio nazionale, in modo da assicurare benessere ed equità sociale per tutti i cittadini.
Gli ultimi anni hanno mostrato in modo inequivocabile quanto la redistribuzione di competenze legislative tra Stato e Regioni, effettuato con la riforma del Titolo V nel 2001, in assenza di un’adeguata definizione della cornice normativa unitaria entro cui era possibile agire la maggiore autonomia concessa, sia legislativa che organizzativa, abbia contribuito alla nascita, in alcuni ambiti, di tanti sistemi differenti quante sono le regioni. E questo ha avuto effetti nefasti anche durante la pandemia, con le tensioni che han-no diviso il governo centrale da quelli regionali, rendendo meno efficace la lotta al virus e la battaglia per salvare la salute, in parti-colare dei più fragili.
A un ventennio dall’introduzione di quella riforma sarebbe più opportuno, e indubbiamente necessario, intervenire – in via ordinaria – per stabilire un nuovo equilibrio tra unità e decentramento e per individuare il luogo di una rinnovata cooperazione istituzionale tra Stato e Regioni al fine di superare contenziosi e perseguire l’interesse generale della collettività.