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Malgrado la guerra, e con l’emergenza sanitaria che continua a incidere sulle nostre vite, quasi ogni giorno si torna inevitabilmente a discutere di Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza: anzi, forse proprio in virtù delle congiunture di questo tempo se ne parla sempre di più, cercando di capire in che modo utilizzare lo strumento introdotto dall'Unione Europea non soltanto per una ripresa post pandemica, ma anche per trasformare in ottica verde e digitale l'economia degli Stati membri.
Per questo giunge nel momento più indicato il piccolo ma denso volume appena pubblicato nelle “Saggine” da Donzelli Editore, dal titolo Ripresa o resilienza? Opportunità e insidie delle nuove politiche industriali (pp.151, euro 18). Il tema è quello delle politiche economiche e di sviluppo, e a quelli che potrebbero essere i mutamenti, i nuovi scenari in vista, per un mondo che cambia sempre più rapidamente, senza capire bene verso quale direzione andare, cercando di evitare l’autodistruzione. Ma gli avvenimenti di cui sopra, in particolare la guerra tra Russia e Ucraina che da oltre un mese condiziona i rapporti globali economici, oltre che umani, non modifica anche la progettualità di utilizzo di una risorsa del genere? Questa una tra le domande che abbiamo rivolto all’autore del libro. Il professor Raffaele Brancati, economista, allievo di Federico Caffè e Giorgio Fuà, presidente del Met Economia, centro di studi indipendenti.
“No, le finalità di utilizzo del Pnrr secondo me restano le stesse. Perché gli scenari di guerra, gli effetti attesi della guerra sono soprattutto sulle materie prime, in parte temporanei e in parte duraturi, e alcune tendenze erano presenti già prima della guerra. Certo, ci sarà da tenere in considerazione quella che potremmo definire una “riduzione della globalizzazione”, all’interno delle catene del valore mondiali. In altri termini, non credo che in Italia, come in altri luoghi, per costruire qualcosa avremo ancora un pezzo dalla Cina, uno dall’India, uno dalla Russia. Questo di certo sarà un aspetto che andrà a toccare il modo di produrre. Ma i grandi obiettivi del Pnrr saranno anzi rafforzati da questa situazione, o almeno è quello che spero: i non combustibili fossili, per fare un esempio, più in generale l’idea che non si debba fare un uso dissennato del pianeta, con una attenzione specifica alla salute. Insomma, a maggior ragione gli obiettivi del Prnrr rimarranno tali e quali, come le strategie”.
Un volume breve ma molto denso, quello di Brancati, che pur trattando una materia piuttosto complessa propone una lettura chiara, che l’autore riassume così: “I grandi investimenti hanno bisogno di due strade: una verso le grandi imprese, ed è inevitabile: perché se bisogna fare grandi interventi per la digitalizzazione di una rete ad alto potenziale, o per la rete ferroviaria, o per la produzione di energia, dobbiamo per forza rivolgerci a Enel, Eni, Tim, Leonardo, vale a dire i pochissimi grandi player che abbiamo in Italia. Ma il Pnrr non può non occuparsi della catena, partecipando in maniera determinante alla costruzione di una filiera per energie rinnovabili, per lo sviluppo piccole e medie imprese, che non possono legare la loro produttività soltanto a importazioni da Germania e Cina”.
Nel capitolo conclusivo, come nel cuore del suo scritto, il professor Brancati affronta la questione in maniera diretta, individuando dove e come intervenire per modificare abitudini ormai ossificate nel nostro sistema produttivo: “Bisogna fare in modo che crollino la contrapposizioni tra grandi e piccoli imprese, dove “grande” è indispensabile, mentre “piccolo” è bello. E qui vorrei chiamare in causa anche il sindacato”. Ascoltiamo volentieri. “Credo che il sindacato debba essere ancora più attento a ciò che succede intorno ai pochi grandi impianti, non meno a interi settori produttivi. Cerco di essere più chiaro: non è che non dobbiamo occuparci dell’Ilva, ma dobbiamo tenere in considerazione, alla stessa stregua, anche le piccole realtà, oggi più che mai. Il rinnovamento, un rinnovamento virtuoso, passa anche se non soprattutto attraverso loro”.
Il motivo deriva dal fatto che i soldi dati alle imprese condizionano la filiera, e questo investimento nelle grandi infrastrutture da parte dello Stato deve essere vissuto come tale, come spesa, una spesa per la quale deve esserci un ritorno, inteso come bene collettivo. Si pensi, tra tutte, alla sanità. Perché oltre i soldi servono i servizi, e le imprese piccole e medie non sono sempre così capaci di comprendere bisogni e competenze, immerse tra ricerca e innovazione. “Non basta dunque potenziare, se non si sa come innovare - prosegue Brancati -: ho bisogno di un sostegno in termini di servizi da parte dello Stato, e quindi di due sistemi (imprese e filiera) destinati a interventi separati, ma che poi parlino tra loro”.
Il libro, concentrandosi sulle opportunità del “Next Generation Italia” invoca una riflessione anche riguardo il Sud del nostro Paese, che secondo l’autore “nei dibattiti viene nominato soltanto per dire quanti soldi vanno a te, quanti a me. Una stupida logica, con il rischio di pre-assegnazioni, con troppi soldi che poi tornano indietro”. Analisi ben curata proprio nel cuore del libro, dove viene anche affrontato il tema delle tante eccellenze che per paradosso hanno poco bisogno dello Stato, a fronte di quelle imprese che provano a fare qualcosa ma non riescono e sono tantissime, oltre il 40% del territorio nazionale, con metà degli occupati, e ampi margini di miglioramento. Un dato non molto conosciuto, eppure reale, e indicativo: “La cosa interessante è il fatto che al Sud questa quota è persino superiore che al Centro nord. Le imprese sono di più, ma deboli. Ecco perché per il Sud non occorre un finanziamento di tipo distributivo ma di tipo strutturato, che intervenga sull’intera filiera formativa”.
Ecco anche perché il libro non butta all’aria tutto quello che c’è ma si chiede come poter organizzarlo meglio, a partire da una riforma necessaria delle politiche industriali.