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Che Guevara nasce il 14 giugno 1928 a Rosario (o almeno questa è la data ufficiale riportata dal certificato di nascita).
“Tutti noi che conosciamo il Che sappiamo che non c’è modo di catturarlo vivo, a meno che non sia incosciente, a meno che non sia messo completamente fuori combattimento da qualche ferita, a meno che non gli si rompa l’arma, infine a meno che non abbia nessuna possibilità di evitare di finire prigioniero togliendosi la vita”, con queste parole, il 15 ottobre 1967, il líder máximo Fidel Castro raccontava la fine dell’eroe della rivoluzione cubana.
Ma chi era il Che?
Dopo la laurea in medicina, nel 1953 l’argentino Ernesto Guevara decide di intraprendere un viaggio attraverso i diversi Paesi dell’America Latina. Il 10 marzo del 1952, con l’appoggio delle lobby dello zucchero e con il beneplacito di Washington, il sergente Fulgencio Batista instaura la dittatura nell’isola di Cuba con un colpo di Stato. Il 26 luglio dell’anno successivo, uno studente universitario - Fidel Castro - guiderà in opposizione al regime, insieme al fratello Raul ed alla testa di un centinaio di studenti, l’assalto alla caserma Moncada. L’attacco fallisce ed i suoi esecutori vengono torturati, imprigionati, uccisi.
Condannato a 15 anni e rilasciato nel maggio 1955 grazie a una amnistia generale, Castro andrà in esilio in Messico e negli Stati Uniti.
A Città del Messico Fidel conosce un giovane medico argentino, Ernesto Guevara de la Serna, idealista rivoluzionario che si appassionerà moltissimo alla vicenda cubana tanto da aderire al Movimento 26 luglio. Nella notte di Capodanno del 1959 i rivoluzionari liberano L’Avana costringendo alla fuga Batista e i suoi seguaci. Un mese dopo Fidel Castro viene nominato primo ministro.
Il Che (“All’inizio era Ernesto. Da argentino aveva l’abitudine di rivolgersi agli altri con la locuzione che, e così iniziammo a chiamarlo noi cubani”) ha una posizione di primissimo piano nel gruppo dirigente rivoluzionario: prima presidente del Banco nacional (1959), poi ministro dell’Industria (1961), compie numerosi viaggi in Africa e in America Latina diventando il simbolo della rivoluzione cubana nel mondo.
Ma il suo posto è altrove, a capo di altre rivoluzioni. Dopo un lungo viaggio in Africa, nel marzo 1965 fa ritorno all’Avana e si dimette da tutte le cariche istituzionali.
“Rinuncio formalmente ai miei incarichi nella Direzione del Partito - scrive a Fidel - alla mia carica di Ministro, al mio grado di Comandante, alla mia condizione di cubano. Nulla di legale mi vincola a Cuba, soltanto legami di altro genere, che non si possono rompere come i titoli. Facendo un bilancio della mia vita passata, credo di aver lavorato con sufficiente onestà e dedizione a consolidare il trionfo rivoluzionario. Il mio unico errore di qualche gravità è di non aver avuto maggior fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente rapidità le tue qualità di capo e di rivoluzionario. Ho vissuto magnifici giorni e ho provato, al tuo fianco, l'orgoglio di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della Crisi dei Caraibi. Poche volte come in quei giorni uno statista brillò tanto alto, e così provo orgoglio anche per averti seguito senza esitazioni, per essermi identificato col tuo modo di pensare e di vedere e di valutare i pericoli e i principi. Altre terre del mondo reclamano il contributo dei miei modesti sforzi. Io posso fare ciò che a te è negato dalla tua responsabilità alla testa di Cuba, ed è giunta l’ora di separarci. Si sappia che lo faccio con un misto di allegria e di dolore: lascio, qui, la parte più pura delle mie speranze di costruttore e i più cari tra gli esseri a me cari... e lascio un popolo che mi adottò come un suo figlio; ciò lacera una parte del mio spirito. Sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo ovunque esso sia; ciò riconforta e cura largamente qualunque strazio. Ripeto una volta di più che sollevo Cuba da qualunque responsabilità, salvo da quella che emana dal suo esempio. Che se la mia ultima ora mi raggiungerà sotto altri cieli, il mio pensiero andrà a questo popolo e in particolare a te. Che ti ringrazio per i tuoi insegnamenti e il tuo esempio e che farò in modo di essere fedele fin nelle conseguenze estreme dei miei atti. Che sono stato identificato sempre con la politica estera della nostra Rivoluzione, e che continuo a esserlo. Che, dovunque io starò, sentirò la responsabilità del fatto di essere un rivoluzionario cubano, e come tale agirò. Che non lascio ai miei figli e a mia moglie nulla di materiale e che ciò non mi addolora: che così sia mi rallegra. Che non chiedo nulla per loro poiché lo Stato darà loro quel che basta per vivere ed educarsi. Avrei molte cose da dirti, a te e al nostro popolo, ma sento che non sono necessarie: le parole non possono esprimere quello che io vorrei, e non vale la pena d’imbrattare carta. Fino alla vittoria sempre! Patria o morte!”.
Scrive ai genitori: “Riprendo la strada, scudo al braccio (…) Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che vogliono liberarsi”.
“Quando si unì a noi in Messico - ricorderà lo stesso Fidel - pose solo una condizione: ‘L'unica cosa che voglio quando la rivoluzione avrà trionfato e io me ne vorrò andare a combattere in Argentina è che non mi si precluda questa possibilità. Che non ci sia ragion di Stato a impedirmelo’. Io glielo promisi. Nessuno sapeva, all’epoca, se avremmo vinto la guerra e chi sarebbe rimasto vivo”.
Negli ultimi mesi del 1966 Ernesto Che Guevara è in Bolivia per organizzare un’insurrezione popolare ma nell’ottobre del 1967 viene catturato e ucciso.
Moriva l’uomo, nasceva la leggenda. “Perché pensano che uccidendolo avrebbe cessato di esistere come combattente? - dirà Fidel - Oggi è in ogni luogo, ovunque ci sia una giusta causa da difendere. Il suo marchio indelebile è ormai nella storia e il suo sguardo luminoso di un profeta è diventato un simbolo per tutti i poveri di questo mondo”.
“Cari Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto - scriveva Ernesto ai suoi figli - e mai leggerete questa lettera, sarà perché non sono più con voi. Non vi ricorderete quasi più di me, e i più piccoli non mi ricorderanno affatto. Vostro padre è stato un uomo che si è comportato secondo il suo credo, ed è stato pienamente fedele alle sue convinzioni. Crescete da bravi rivoluzionari. Studiate tanto e imparate a usare la tecnologia, che ci permette di dominare la natura. Ricordatevi che la rivoluzione è quello che conta, e che ognuno di noi, da solo, non conta niente. Ma più di ogni cosa, imparate a sentire profondamente tutte le ingiustizie compiute contro chiunque, in qualunque posto al mondo. Questa è la qualità più importante di un rivoluzionario”.