Tutti abbiamo conosciuto John Updike attraverso le sue più felici intuizioni letterarie, che in particolare si legano alla quadrilogia del Coniglio, pubblicata da Einaudi come la maggior parte dei suoi altri libri. Per questo assume ancor più valore la proposta delle Edizioni Sur, arricchita nel catalogo della sua collana “Big Sur” di un titolo che in Italia mancava, Armoniose bugie (pp. 450, euro 20), raccolta di saggi dello scrittore americano pubblicati tra il 1959 e il 2007.

Un testo che, in vista dell’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, diviene anche un originale ed esclusivo punto di osservazione per cercare di comprendere in profondità la società americana in alcune componenti che determinano la sua singolare eterogeneità, fatta di lande sconfinate e grandi agglomerati urbani, di bianchi e di neri (e non solo), di un razzismo non troppo latente, di una mescolanza umana in grado di passare, con assoluta disinvoltura, da una doppia elezione di Barack Obama al rischio di confermare per la seconda volta la dannosa presidenza di Donald Trump. In questo senso, le impressioni quasi dipinte di Updike, sparse qui e là, divengono preziose.

Il volume, curato dallo scrittore italiano Giulio D’Antona, riconosciuto esperto di cultura americana, viene suddiviso in tre sezioni, scrittura-libri-scrittori, in modo da offrire al lettore una progressione ragionata degli interventi, apparsi soprattutto nelle pagine del New Yorker e della New York Rewiew of Books, a loro volta contenuti in varie raccolte già pubblicate oltreoceano, tra cui spiccano Odd Jobs e More Matter.

La cifra che contraddistingue il libro è il tratto inconfondibile della penna di Updike, che pur nella sua variante saggistica mantiene una vocazione narrativa, per certi versi ampliandola, mettendola al servizio delle sue riflessioni, che ancora una volta non difettano certo per creatività.

Ci imbattiamo così, in chiusura del capitolo sulla scrittura, nel “dialogo impossibile” tra Johannes Gutenberg, l’inventore della stampa, e Bill Gates, l’incarnazione della trasformazione tecnologica in atto (“La stampa: un dialogo”, p. 186). Divisi da cinque secoli di storia, i due si incontrano in un luogo fortemente simbolico, la Fiera del Libro di Francoforte, sulla quale entrambi aleggiano come spiriti fuori da ogni tempo, spaziando nel corso della conversazione sul significato della stampa e sulle sue trasformazioni, tra il ricordo della bellezza, della raffinatezza dei primi libri manoscritti, e le difficoltà nel proporre al pubblico contemporaneo la prima versione di Microsoft Basic. Un dialogo, va da sé, che nella sua forma e struttura viene spontaneo accostare ad alcune tra le più note Operette Morali di Giacomo Leopardi, anche per la facilità con cui viene maneggiata una prosa fluida e incisiva.

Di grande interesse gli scritti dedicati ai libri, molti recensiti in base a delle regole ben definite dallo stesso Updike, che qui non sveleremo tutte, ma nel nostro piccolo proveremo a rispettare (“Una poetica del recensire libri”, p.204). Se ne trovano di vari, e non solo quelli più amati, tra cui Franny e Zoe di Salinger, i racconti di Franz Kafka, tre romanzi di uno degli scrittori preferiti, Henry Green, e altri ancora.

Tenendo fede a una di queste regole (“Dai un saggio della prosa del libro con un numero adeguato di citazioni - almeno un ampio brano - perché il lettore della recensione possa avere un assaggio e ricavarne una sua impressione”), scegliamo un passaggio inserito nell’ultima parte del volume, riservata agli scrittori (quattro brevi saggi consecutivi riguardano soltanto John Cheever). L’unico italiano presente è Italo Calvino, e Updike scrive pochi giorni dopo la sua morte, nel 1985, Il signor Palomar:

“L’improvvisa scomparsa di Italo Calvino a poco più di sessant’anni, priva il mondo di uno dei suoi pochi maestri, uno scrittore sempre inventivo e sperimentale che ciò nonostante ha conferito alla sua opera un’eleganza tradizionale e un disegno lucido e compiuto. Vent’anni fa era poco conosciuto negli Stati Uniti; fu John Bart, egli stesso uno scrittore d’avanguardia con una forte componente di conservatorismo estetico, a farmi per primo il suo nome, parlandomene come di un autore la cui lettura gli era stata sollecitata dai suoi stessi studenti di scrittura creativa. Costoro lo avevano conosciuto principalmente per la fantascienza delle Cosmicomiche e Ti con zero. Cominciai a leggere Calvino, con ammirazione e delizia, ed ebbi piacere di recensire in maniera estesa Le città invisibili. A colpirmi, insieme al rigoroso e intricato schema del libro e alla creatività che donava a quello schema una pienezza sfolgorante, fu l’amorevole preoccupazione civica che traspariva da quella moltitudine di città immaginarie. Lo scrittore moderno ha spesso un atteggiamento caustico e ostile verso le istituzioni umane; Calvino, al contrario, era un sociologo rispettoso, uno studente divertito e volenteroso delle cose per come sono”.  

 

Se questo brano rende un servizio al lettore, come pensava Updike, lo si deve all’ennesima traduzione impeccabile di Tommaso Pincio, altro autore italiano che di scrittura, di cultura e di società americana se ne intende.