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La marcia del 9 dicembre è stata potente, una boccata di aria pura nei giorni tossici della Cop. Un’unica voce del movimento per la giustizia climatica e la giusta transizione. Insieme sindacalisti, indigeni, attivisti per il clima e per la giustizia di genere, persone del Nord e del Sud del mondo, con diverse culture, religioni, lingue ma uniti e forti nel gridare le loro comuni rivendicazioni: immediato cessate il fuoco in tutte le guerre, stop al genocidio nella fascia di Gaza, uscita dalle fonti fossili e dai sussidi alle fonti fossili, giusta transizione, rispetto dei diritti umani e del lavoro, equità, riparazione verso i Paesi del Sud del mondo, cancellazione dei debiti insostenibili, restituzione delle terre occupate.
Quello per la giustizia climatica è un movimento anticapitalista, che lotta contro ogni forma di sfruttamento, contro l’estrattivismo e il colonialismo, un movimento di popolo, unito nel desiderio di un mondo più giusto guidato dall’amore, la solidarietà, l’empatia, la spiritualità, il rispetto e la cura della nostra madre terra.
La marcia era stata autorizzata con un percorso molto breve e con restrizioni riguardo alla possibilità di fare riferimento a nomi o esporre bandiere di Stati (vedi Israele o Palestina). Il movimento ha accettato questo accordo, pur avendolo contestato per consentire lo svolgimento della marcia senza che a nessun partecipante venisse ritirato il badge e quindi la possibilità di restare alla Cop, ma peggio ancora per evitare espulsioni o arresti, soprattutto nei confronti degli attivisti dei Paesi più poveri e meno tutelati.
Ciononostante il messaggio è stato forte e chiaro, pacifico ma potente, ha gridato le rivendicazioni rivolte ai decisori politici, esprimendo il dolore e la rabbia per l’impassibilità della politica nei confronti del genocidio del popolo palestinese, di tutte le guerre, delle ingiustizie, dei disastri climatici. La distanza fra le richieste del movimento e chi nei negoziati dovrebbe rappresentarci non potrebbe essere più distante. La lotta è ancora lunga per conquistare il radicale cambiamento di sistema che la Cgil vuole, ma non ci fermeremo e non siamo soli.