L’8 febbraio dello scorso anno la Camera dei Deputati approvava con larghissima maggioranza (468 sì, 1 contrario, 6 astenuti) in via definitiva il disegno di legge di riforma costituzionale già approvato dal Senato, portando alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2022 della Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”.

Gli articoli modificati

Due gli articoli modificati: l’art. 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, Tutela il paesaggio ed il patrimonio artistico e storico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”) e l’art. 41 (“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”).

“Il cambiamento climatico e la transizione verde - affermava qualche tempo fa la vice segretaria generale della Cgil Gianna Fracassi - modificheranno in maniera consistente il modo di vivere e quindi inevitabilmente anche il modo di lavorare. È necessario intervenire per tempo per riprogrammare l’economia, cambiando i modelli produttivi e gli stessi prodotti attraverso la contrattazione a tutti i livelli, il confronto con il governo nazionale e le amministrazioni locali”.

Il tempo sta finendo - aggiungeva - non solo perché i cambiamenti climatici stanno determinando materialmente degli effetti sul clima e sulle nostre vite. Sta finendo anche perché abbiamo scelto come Paese di aderire agli obblighi internazionali sul clima. Ma per riprogrammare l’economia non bastano due anni. Bisogna cominciare a intervenire per tempo, con una strategia di medio-lunghissimo periodo, a partire dalle questioni energetiche. È un processo che va governato perché ha implicazioni di natura fiscale, economica, ambientale e, se costruito e programmato, può anche determinare la creazione di tanti posti di lavoro. Soprattutto per i giovani di questo Paese che, come è noto, oggi non hanno oggi grandi opportunità. Ma se non si prova a invertire la tendenza, non ne avranno neanche in futuro”.

La questione dell'equilibrio ecologico

Sosteneva del resto Bruno Trentin già nel 2000

L’equilibrio ecologico è una questione ineludibile. La battaglia degli ambientalisti ha costituito un momento di rottura salutare nelle culture della sinistra: mettendo in questione - così come lo hanno fatto i movimenti femministi - uno storicismo dogmatico che si identificava con le forme assunte dallo sviluppo economico, dall’organizzazione del lavoro, dall’evoluzione delle forze produttive, come dati immodificabili, iscritti nella storia con le loro tappe ineluttabili. Ogni tentativo di mutare questa impostazione veniva considerato utopistico e reazionario insieme. L’aver posto con forza la questione dei limiti dello sviluppo e la necessità di subordinare la qualità economica alla salvaguardia e al recupero degli equilibri ecologici, come questioni ineludibili dell’oggi, è stato un grande merito dell’ambientalismo; un merito che va al di là delle specifiche questioni pur fondamentali dell’ambiente. Ma un limite molto frequente delle culture ecologiste, e forse anche una delle cause della loro condizione spesso minoritaria, è rappresentato a mio avviso dalla loro difficoltà a collegarsi con le tematiche della liberazione del lavoro umano, della difesa della salute e dell’integrità psicofisica delle persone che lavorano e che sono in definitiva le prime vittime del degrado ambientale. Non aver saputo in molti casi far convergere le loro lotte con quelle dei lavoratori, per un fine che è oggettivamente comune, ha finito per allontanare dall’azione per la difesa della natura un soggetto fondamentale: i lavoratori (…) La domanda da porci è come cambiare. Come farlo mediante un processo democratico, capace di modificare il rapporto tra governanti e governati. Certo che una più equa distribuzione della ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo sarebbe auspicabile, ma nell’attesa che questo sogno diventi realtà, mi sembra difficile impedire che ai paesi in via di sviluppo venga assicurata non solo la sopravvivenza, ma anche la possibilità di un minimo di benessere. Dunque scontando che almeno per alcuni beni fondamentali una certa crescita debba aver luogo. Naturalmente il problema è quale tipo di crescita, quale sviluppo. È facile immaginare il drammatico dissesto dell’intero pianeta se tutti i poveri del mondo raggiungessero tassi di motorizzazione individuale pari a quelli dell’Occidente. Ma tecnologie più avanzate, che consentano risparmio di energia e materie prime, possono prospettare ipotesi diverse. E d’altronde un diverso approccio allo sviluppo si fonda non solo sull’intelligenza creatrice, che inventa nuove tecniche e nuovi prodotti, ma anche sull’intelligenza di chi li gestisce (…) Quello che mi interessa è mettere a fuoco degli strumenti che si pongano di raggiungere determinati obiettivi, a difesa delle esigenze dell’ambiente e di tutte le altre che una civiltà in evoluzione comporta, e che siano in grado di farlo salvaguardando i rapporti democratici. La denuncia senza l’indicazione di strumenti concreti, capaci di superarne le ragioni, mi preoccupa (…) occorre trovare degli strumenti compatibili con la ragione democratica (…) quello che manca nelle sinistre è una cultura della proposta. In tutto il mondo la sinistra è sempre stata divisa tra la cultura della protesta e la cultura governativa. Si protesta finché non si è al governo, e quando si arriva al governo si amministra l’esistente. Una seria cultura della proposta significa fare i conti con il possibile. Tassare chi inquina è una proposta concreta. Una politica fiscale selettiva, che penalizzi certe produzioni a rischio, sarebbe un modo molto concreto di premere sulle scelte di investimento anche delle multinazionali. Spesso, è vero, le grandi società tendono a bloccare innovazioni che compromettono una produzione ancora lucrativa. Ci son voluti dieci anni in Italia per imporre l’obbligo della marmitta catalitica, ma ci siamo riusciti. È stato un piccolo passo avanti. Se ne possono fare molti altri. Dall’auto elettrica ai servizi collettivi, all’enorme futuro che si apre alle biotecnologie (…) c’è un altro modo di competere, quello di investire in ricerca, in formazione, in lavoro intelligente, per produrre beni immateriali, che oggi possono giocare un ruolo decisivo nei confronti della difesa dell’ambiente.

Ricerca, formazione, lavoro. Lo abbiamo detto, continueremo a dirlo.