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A metà del guado. A sette anni dal varo e ad altrettanti dal 2030. L’Agenda delle Nazioni Unite per lo Sviluppo sostenibile si trova esattamente nel mezzo del percorso, una tappa perfetta per fare un bilancio, delineato nell’ottavo rapporto dell’Asvis, capire dove ci troviamo, che cosa è stato fatto e cosa manca per arrivare alle scadenze fissate in sede Onu.
“Purtroppo il bilancio è molto negativo sia a livello globale che italiano, e in parte anche europeo – afferma Enrico Giovannini, direttore scientifico dell'Alleanza italiana per lo Sviluppo sostenibile -. Il segretario generale dell’Onu Guterres di recente ha sottolineato come nei primi quattro anni dell’Agenda le cose avevano iniziato a migliorare in modo significativo: riduzione della povertà, aumento delle rinnovabili, lotta alle malattie trasmissibili. Insomma sembravamo orientati in una direzione positiva. Poi la pandemia, la guerra in Ucraina, l’aumento dei prezzi dell’energia, la crescita dell’inflazione hanno sospinto indietro il mondo”.
Perché dopo i miglioramenti del passato adesso registriamo un arretramento?
La sequenza di eventi e di shock, dalla pandemia alle guerre e anche un peggioramento della cooperazione internazionale multilaterale spiegano perché non si riesca ad avanzare sull’agenda climatica mondiale, per realizzare la quale serve il contributo di tutti, comprese la Cina e la Russia. Le tensioni geopolitiche hanno di fatto bloccato i negoziati su varie tematiche e rischiano di fermare anche quelli sulla riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Tutte le organizzazioni multilaterali sono in grande difficoltà: le ultime Conferenze della Parti sui cambiamenti climatici non hanno prodotto risultati significativi, speriamo non accada lo stesso alla prossima Cop di Dubai.
Che cosa accadrebbe se noi continuassimo con questi ritmi?
Nel 2030 avremmo ancora 600 milioni di persone in povertà estrema, centinaia di milioni di bambini che non andrebbero a scuola, e centinaia di milioni che pur andando a scuola non avrebbero le competenze necessarie. L’aumento della temperatura della Terra supererebbe il grado e mezzo, con disastri ambientali peggiori di quelli attuali. Quindi, o cambiamo strada, o, ci dice l’Onu, il rischio di un aggravamento delle condizioni economiche, sociali e ambientali diventerebbe realtà.
Nel frattempo che cosa sta succedendo?
La siccità, le alluvioni, i conflitti sono aumentati, con migrazioni di proporzioni enormi. La povertà e le disuguaglianze crescono. Sembra che non si riesca a riprendere quel bandolo della matassa che aveva portato tutto il mondo a concordare sull’Agenda nel 2015.
E in Italia?
La situazione nel nostro Paese non è positiva, purtroppo. Su 17 Obiettivi solo per otto si notano miglioramenti dal 2010 a oggi e in molti casi l’aumento degli indicatori è limitato: in due la crescita è del 10 per cento in 12 anni, per altri sei è stata di soli 5 punti. Degli altri nove, tre sono stabili e sei addirittura peggiorano: la povertà assoluta è molto elevata, la disuguaglianza tra ricchi e poveri continua ad allargarsi, la qualità degli ecosistemi marini e terresti si aggrava, non rispettiamo gli impegni che abbiamo assunto per la cooperazione internazionale, anche nella governance interna si registra una sfiducia crescente nelle istituzioni e nella politica.
Poi ci sono target, cioè sotto-obiettivi, che non riusciremo comunque a raggiungere. Per esempio, la quota di giovani laureati, che secondo l’Agenda al 2030 dovrebbe essere pari al 50 per cento: noi siamo tra il 25 e il 30 per cento. In 7 anni non potremo quasi raddoppiare. Questo non significa che dobbiamo mollare, ma anzi accelerare.
Un mese fa è stata varata la Strategia nazionale per lo Sviluppo sostenibile: è un passo importante.
Certamente. Se attuata consentirebbe un miglior coordinamento delle politiche e un orientamento generale delle scelte all’Agenda 2023. Se l’avessimo avuta sette anni fa al posto di quella debole varata nel 2017 forse non ci troveremmo dove siamo adesso.
Però è una strategia e come tale va tradotta in pratica. Afferma che bisogna raggiungere una serie di obiettivi, per la prima volta quantificati, in termini occupazionale, di efficientamento energetico, di riduzione delle emissioni. Ma bisogna trasformare queste idee in azioni e qui un po’ di scetticismo è giustificato: per esempio, il Piano nazionale integrato energia e clima presentato dal governo a giugno non ci consente di raggiungere neppure i target sottoscritti in Europa.
Tra i dati più preoccupanti c’è quello dell’aumento della povertà.
L’Istat è uscita con i nuovi dati che confermano la drammaticità della situazione: oltre due milioni di famiglie in povertà assoluta, che equivalgono a più di cinque milioni e mezzo di persone, quasi il 10 per cento della popolazione, un numero che evidentemente non è stato scalfito o ridotto significativamente dalle politiche, nonostante il ruolo importante svolto dal reddito di cittadinanza. Nel frattempo l’inflazione è aumentata moltissimo e ha tagliato in termini reali i salari, in particolare quelli di chi guadagna poco.
Siamo preoccupati perché anziché seguire le indicazioni della commissione per il miglioramento del Rdc che il governo Draghi aveva predisposto, il nuovo esecutivo ha deciso di cancellarlo sostituendolo con altri strumenti che coprono fasce ancora minori della popolazione e che, come mostriamo nel nostro rapporto, hanno una serie di problemi anche tecnici. Rischiamo di avere fette importanti della popolazione senza un sussidio. Abbiamo fatto delle proposte, vedremo se il governo ci ascolterà.
Quali sono le altre proposte di Asvis?
Abbiamo bisogno di accelerare il percorso di transizione ecologica giusta e di accompagnare le imprese nella trasformazione. Innanzitutto dobbiamo smettere di discutere anche nei talk show televisivi se il cambiamento climatico è vero e se dobbiamo combatterlo. Così forse la transizione cominceremo a metterla in atto, discutendo seriamente quali politiche dobbiamo realizzare perché sia “giusta” e non sia pagata dai più poveri.
Le nostre proposte sono molto concrete, ma finché avremo un negazionismo climatico molto forte, avremo soggetti politici ed economici che dicono che dobbiamo rallentare invece che accelerare. Poiché i nostri dati ci dicono che andiamo già molto piano, rallentare vorrebbe dire stare fermi. Mentre noi discutiamo gli altri Paesi investono su tecnologie verdi e digitali, guadagnando posizioni sul fronte della competitività, dell’occupazione, delle quote di mercato, dei profitti. Insomma, dobbiamo accelerare al massimo per ottenere il prima possibile i benefici della transizione, compresa una maggiore autonomia energetica, indispensabile viste le tensioni che caratterizzano il mondo intorno a noi.