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Le guerre sono un acceleratore della crisi del nostro modello di sviluppo, ma nello stesso tempo anche lo strumento che il sistema ha scelto per rispondere alle crisi, nonostante il rischio di scatenare la terza guerra mondiale nucleare.
La spesa militare globale è in continua crescita dall’inizio del secolo a oggi, mentre non aumentano gli investimenti per la cooperazione internazionale contro le povertà, la fame, la messa in sicurezza dei territori e delle popolazioni per fronteggiare le calamità naturali.
La demilitarizzazione è il tema della settima giornata della Global week of Action, campagna di informazione, mobilitazione e azioni per il clima.
Spesa militare in crescita
In base al rapporto del Sipri di Stoccolma la spesa militare mondiale nel 2023 ha raggiunto la cifra di 2.443 miliardi di dollari americani, con una crescita del 6,8 per cento rispetto al 2022.
Sempre secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute, l’aumento netto annuale di oltre 200 miliardi equivale alla somma di quanto i Paesi industrializzati hanno investito nel 2023 per l’aiuto pubblico allo sviluppo, stimato a meno di 224 miliardi di dollari. In altre parole, per 1 dollaro investito in cooperazione se ne spendono 10 in armi.
Ma la novità, conseguenza della scelta di sostenere militarmente i diritti dell’Ucraina, riguarda i Paesi dell’Unione europea, la cui spesa militare nel 2023 è aumentata del 16 per cento: il più grande incremento annuale nella regione nel periodo successivo alla Guerra Fredda (fonte: Osservatorio Mil€x).
Più armi che salute
Anche in Italia la spesa militare, pur rimanendo abbondantemente sotto il 2 per cento richiesto dalla Nato, continua a crescere in quote superiori (26 per cento) a quella per la sanità (11 per cento), istruzione (3 per cento) e ambiente (6 per cento) (fonte: Laboratorio permanente di riconversione per una politica industriale di pace in Italia).
Questi dati non fanno altro che confermare una corsa al riarmo che implica nuovi investimenti nell’industria bellica, sottraendo risorse sia al bilancio dell’Unione europea che a quelli degli Stati membri per finanziare la transizione ecologica, educazione, sanità e sicurezza sociale.
La mission di Leonardo
Un esempio di come si stia affermando l’economia di guerra è dato dal cambio di mission di Leonardo (ex Finmeccanica) che nel 1995 era un gruppo industriale il cui fatturato per il 72 per cento proveniva da attività civili e solo il 28 per cento dal militare. Nel 2023 queste quote si sono rovesciate: solo il 25 per cento nel civile e il 75 nel militare (fonte: Laboratorio permanente di riconversione per una politica industriale di pace in Italia).
Fermare l’economia di guerra
È sempre più urgente fermare le guerre e l’economia di guerra, rimettendo al centro la vita delle persone, l’accesso ai diritti umani universali e la convivenza con il pianeta Terra. L’unica strada da seguire e da sostenere è quella fissata nella Carta delle Nazioni unite, nel rispetto del diritto internazionale e nella costruzione della sicurezza di tutti popoli e di tutte le nazioni, e non solamente di una parte del mondo.
Occorre riportare la politica sul binario della pace, e farlo presto prima che sia troppo tardi. Vi sono proposte già note che però non trovano ascolto nelle sedi politiche. Ne citiamo alcune, raccolte dal lavoro dell’International Peace Bureau e della Csi/Ituc, che a quarant’anni dal rapporto della commissione guidata dall’ex premier svedese Olof Palme, riparte dalla necessità di costruire una politica europea impostata sul disarmo, sulla riconversione e sulla sicurezza comune, le basi che determinarono la nascita dell’Organizzazione per la sicurezza e per la cooperazione europea (Osce).
Proposte per la politica del disarmo
Vediamo alcune di queste proposte:
- riformare il sistema Onu, dando maggiori poteri all’assemblea generale e togliere il diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza;
- accordo dell’assemblea delle Nazioni unite per la riduzione delle spese militari del 2 per cento all’anno, eliminazione delle armi nucleari, liberando così 72 miliardi di dollari;
- risorse da destinare a un “Fondo per la pace” per finanziare programmi di riconversione dall’industria militare a quella civile e sostenere i programmi di transizione ecologica; un investimento che porterebbe alla creazione di oltre 500 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030.