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Funziona così: noi inquiniamo, e per noi si intendono i Paesi che producono, consumano e aumentano le emissioni di CO2, quelli che sono storicamente responsabili della maggior parte della produzione di gas serra e dei conseguenti cambiamenti climatici. E altri sono costretti a partire per sopravvivere. L’innalzamento dei mari, lo stress idrico, la desertificazione, le inondazioni, gli eventi meteo sempre più estremi come i monsoni e gli uragani spingono milioni di persone a lasciare le loro case, le città, anche gli Stati alla ricerca di rifugio.
Sono i profughi ambientali, più di 20 milioni ogni anno, 216 milioni entro il 2050, secondo il Rapporto Groundswell della Banca Mondiale, che potrebbero essere costretti a spostarsi all’interno dei loro Paesi a causa della crisi climatica, soprattutto dall’Africa sub-sahariana e dall’Asia orientale. Non basta. Secondo l’Ipcc (il panel intergovernativo delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici) oltre il 40 per cento della popolazione mondiale vive in contesti di “estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici”, tra i 3,3 e i 3,6 miliardi d'individui.
“E mentre i rifugiati politici possono accedere agli aiuti negli Stati ospitanti, lo stesso non si può dire per quelli climatici, perché non c’è nessun atto internazionale che riconosca la loro figura – spiega Valerio Calzolaio, ex deputato, esperto del tema e autore di diversi saggi sulle migrazioni -. Gli sfollati o profughi climatici, sarebbe meglio chiamarli così per distinguerli da quelli politici, subiscono gli effetti del riscaldamento del pianeta senza nemmeno aver contribuito a causarli con le proprie emissioni. Sono persone a cui manca ogni protezione”.
Questo accade nonostante clima e migrazioni siano al centro del dibattito e diverse sentenze in alcuni Paesi, Italia compresa, abbiano riconosciuto il diritto di asilo a soggetti che fuggono dalle conseguenze del global warming e dal degrado ambientale.
“L’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ndr) come linee guida d'intervento li assiste se restano all’interno del loro Paese - prosegue Calzolaio -, ma se attraversano il confine non sono riconosciuti dal diritto internazionale. Tra i primi a chiedere l’assistenza pubblica è stato Papa Francesco nell’enciclica Laudato si', ma non si è ancora trovato un sistema per tutelare milioni di uomini, donne e bambini in fuga dalla siccità, dalle inondazioni, dalla desertificazione”.
Non dobbiamo immaginare necessariamente accadimenti catastrofici e traumatici, ma anche eventi lenti e progressivi che inducono le persone a emigrare. Senza contare che dal 3 al 20 per cento dei conflitti avvenuti durante lo scorso secolo ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima, stando allo studio “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati” pubblicato dalla rivista "Nature". Come ci ricorda Legambiente nel suo dossier “I migranti ambientali”, è il caso della guerra civile siriana, 6 milioni e 700 mila sfollati interni in 10 anni, collegata alla scarsa disponibilità idrica causata da una lunga siccità. O ancora quello della regione del Sahel, dove circa il 70 per cento della popolazione vive di agricoltura e pastorizia e le tensioni già esistenti per questioni di suolo e accesso alle risorse idriche sono esacerbate da lunghi periodi siccitosi e violente piogge e inondazioni.
La scienza ci permette di sapere in anticipo in quali territori dell’Asia e dell’Africa la crisi climatica colpirà più duramente, lì l’Onu e gli organismi internazionali dovrebbero concentrare un sostegno e interventi per l’adattamento e la mitigazione. “Bisogna prevenire i rifugiati climatici, attivando risorse e competenze collettive, internazionali e pubbliche per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici che portano alle migrazioni forzate – dice Calzolaio -. E poi più rispetto e doverosa accoglienza per queste persone. Noi italiani siamo una specie meticcia, mescolati da oltre cinquemila anni, da prima della scoperta dell’America. Oggi i migranti possono essere davvero utili in un Paese come il nostro che sta vivendo un grave declino demografico, con intere aree a rischio spopolamento, dove a breve non si troverà forza lavoro per far funzionare servizi essenziali, come tenere aperta una scuola o l’ufficio di un tribunale”.