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Sono arrabbiati e vogliono trasformare la loro rabbia in energia rinnovabile. Per questo scendono di nuovo in piazza in una sessantina di città italiane e nel resto del mondo per l’ennesimo sciopero del clima venerdì 3 marzo, giornata di mobilitazione a cui aderisce anche la Cgil. “Abbiamo perso l’abitudine di contarli anche per non farli sembrare sempre tutti uguali – precisa Alessandro Marconi, portavoce nazionale dei Fridays for Future -. Per interrompere la ritualità. Ma noi continueremo a manifestare e a scioperare finché non verremo ascoltati e le nostre richieste accolte”.
Una lunga lista di rivendicazioni su energia e trasporti, i primi due settori per emissioni di CO2, sugli extraprofitti e i sussidi ambientalmente dannosi, sulla giustizia sociale e l’ecotransfemminismo, su un modello di sviluppo sbagliato che tuttora, nonostante le evidenze scientifiche, continua a puntare sulle fonti fossili.
Dal 2018 a oggi con i Global Climate Strike avete coinvolto milioni di giovani, attivisti e sindacalisti di tutto il mondo con una partecipazione impensabile fino a qualche tempo fa. Siete ancora motivati a scioperare, nonostante i governi sordi e la politica assente?
La lotta che facciamo è complessa, integra molti aspetti della società con richieste radicali. È per questo che in pochi anni è difficile che si concretizzino risultati evidenti. Qualche progresso c’è stato, ma si va troppo lenti, è necessario che si acceleri significativamente. Dall’altra parte però sta cambiando la percezione da parte della popolazione. Anche la politica sta iniziando a occuparsi di crisi climatica, almeno sulla carta, nei programmi elettorali. Quello che non cambia è ciò che facciamo. Riconoscere l’esistenza del problema non basta. Bisogna agire.
Facendo cosa, per esempio?
Le grandi compagnie del fossile subito dopo l’inizio del conflitto in Ucraina hanno innalzato alle stelle i loro ricavi a causa della guerra e del rincaro dei prezzi. Gli Stati si sono fatti trovare impreparati e i governi sono dovuti correre ai ripari aiutando le famiglie. Nel caso di Eni, per esempio, gli utili, superiori al 700 per cento, sono stati ottenuti sfruttando la guerra e la speculazione finanziaria e attingendo direttamente dalle bollette. La tassa sugli extraprofitti, pari a 3,7 miliardi di euro in totale sui 10,4 netti del 2022, non è stata reinvestita in progetti legati alle energie rinnovabili ma destinata a un meccanismo che distribuisce i dividendi agli azionisti.
Nell’agenda climatica dei Fridays for Future individuate nelle comunità energetiche rinnovabili solidali la chiave per affrontare la crisi. In cosa consistono?
Sembra un modello utopistico, invece è realizzabile. Il pubblico potrebbe finanziare una comunità energetica da 10 megawatt in ogni comune, in grado di coprire il 50 per cento del fabbisogno di energia elettrica di un territorio. Questa produzione andrebbe integrata da altre fonti ma consentirebbe una riduzione delle emissioni in modo molto rapido, in linea con gli obiettivi Ue al 2030. Tra i benefici immediati: abbassamento dei costi dell’elettricità, creazione di posti di lavoro, sviluppo delle tecnologie rinnovabili, promozione di comunità resilienti e partecipative.
L’attuale governo continua a battere la vecchia strada delle fonti fossili, come quelli precedenti, e a non investire in efficienza e risparmio energetico, rinnovabili e sviluppo delle produzioni nazionali strategiche per una giusta transizione ecologica. La guerra non ci ha insegnato niente?
Evidentemente no. Speravamo che dal conflitto in Ucraina si potesse imparare qualcosa, capire che il modello di sviluppo basato sulle fossili stava inquinando anche il rapporto tra Paesi, legandoci a Stati autoritari e liberticidi, Russia e non solo. Ma anziché cambiare strada e batterne altre alla ricerca di soluzioni alternative, il governo ha messo in campo le stesse risposte. Per questo il 3 marzo dobbiamo scendere in piazza e dobbiamo essere in tanti.