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La pandemia, proprio come una lente di ingrandimento, ha evidenziato i problemi già esistenti del nostro attuale modello di sviluppo. L’Italia, abbondantemente colpita dalla crisi sanitaria, si è trovata a dover fare i conti con una situazione che ha esacerbato ancora di più le debolezze del nostro tessuto produttivo. Non è un caso che tra le dieci aziende col maggior numero di dipendenti presenti ai tavoli di crisi del ministero dello Sviluppo economico, le più grandi siano proprio quelle dei settori che oggi si trovano a dover affrontare quella transizione ecologica di cui tanto si sta sentendo parlare, e di cui al tempo stesso abbiamo bisogno per raggiungere gli obiettivi di riduzione e azzeramento delle emissioni climalteranti.
I tavoli di crisi attualmente aperti sono 69 con almeno 50 mila lavoratori in bilico: è ormai chiara la necessità di una riconversione industriale. Ma poiché all’orizzonte non sembrano esserci investitori privati – se non dietro ingenti sussidi da parte dello Stato – allora diventa fondamentale l’intervento dello Stato stesso, condotto anche mediante le risorse del modesto Pnrr (da non disperdere nei troppi rivoli di bonus talora regressivi). Con l’obiettivo di riaffermare la filosofia costituzionale “che attribuisce alle situazioni di contenuto patrimoniale il ruolo servente rispetto a quelle esistenziali” (P. Perlingieri), comprendendo il diritto al lavoro e quello a un ambiente salubre da garantire anzitutto contrastando la crisi climatica.
C’è bisogno di una forma di pianificazione industriale, condotta a livello nazionale affinché possa essere controllata democraticamente dai cittadini attraverso i propri rappresentanti e non quindi portata avanti da quel mercato a cui non sembra importare la salute delle nostre democrazie, il tutto affinché i costi dei cambiamenti epocali di fronte ai quali ci troviamo non vengano scaricati sulle spalle dei lavoratori. Questa crisi, proprio in virtù della sua eccezionalità, ci mette con le spalle al muro mostrandoci l’insostenibilità sociale ed ecologica di un sistema che si basa sull’idea di una crescita infinita. Oggi non è più pensabile orientare la domanda all’interno dell’attuale perimetro economico, soprattutto considerando quanto sarebbe antidemocratico se queste valutazioni fossero prese dal mercato. Sono cambiate le condizioni e siamo sempre più consapevoli dei limiti planetari.
Il caso della Gkn di Campi Bisenzio è emblematico della crisi cui abbiamo accennato, in cui lo Stato è incapace di garantire a monte l’utilità sociale dell’iniziativa economica privata, opponendosi a speculazioni finanziarie su attività produttive (come quelle condotte in tal caso dal fondo Melrose proprietario del gruppo Gkn Automotive, sempre fedele al proprio motto “Buy, improve, sell”); e in cui però lo stesso Stato potrebbe intervenire a valle nel gestire la fase di transizione di una produzione, quella di semiassi e componentistica per automobili, destinata, nonostante la transizione all’elettrico, a una necessaria compressione onde evitare una nuova perniciosa motorizzazione di massa.
Da segnalare anche il proficuo incontro con l’Accademia (almeno con una minoritaria ma impegnata parte di essa), che attraverso giuristi, economisti e “ingegneri solidali” degli atenei pisano e fiorentino ha lavorato insieme al Collettivo sia nella redazione di una proposta di legge anti-delocalizzazioni che nella stesura di un “piano” contenente una “prospettiva multilivello, volta a garantire come ultimo scopo la stabilità occupazionale e reddituale di lavoratori e lavoratrici”, articolata in due proposte alternative: una fondata su un “Polo pubblico della mobilità sostenibile”, mantenendo continuità con l’attuale produzione; e una più radicale di riconversione a produzioni diverse.
Soprattutto la prima proposta potrebbe sostenere lo sviluppo di servizi pubblici di trasporti collettivi, che unitamente a investimenti nella mobilità ciclabile e pedonale, sono l’unica strada per superare il deficit di alternative all’auto privata. Grave mancanza che attualmente impone alla maggior parte degli italiani di utilizzare l’auto per spostarsi, e a tre persone su quattro di usarla per muoversi in un raggio non superiore ai 10 chilometri. Un dato che dovrebbe far riflettere sulla priorità del suddetto tipo di investimento piuttosto che di quello, che la fa da padrone nel Pnrr, sull’alta velocità. Infatti quest’ultima, oltre a non risolvere il trasporto nel breve raggio, ha nella sua costruzione impatti economici positivi molto più lontani nel tempo rispetto a quelli realizzabili con la produzione e l’acquisto di bus elettrici, la realizzazione e l’ampliamento di reti ferrotranviarie e piste ciclabili, anche in parte direttamente affidati a regioni ed enti locali.
Se è quindi chiaro che un pezzo della nostra storia industriale del Novecento sta venendo meno e all’orizzonte non sembrano esserci proposte di politiche industriali efficaci, non resta che a noi proporre nuove alternative che rendano giusta una transizione ecologica che, altrimenti orientata, rischia di essere un pericoloso strumento nelle mani delle classi dominanti.
Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane, attivisti di Fridays For Future Italia