PHOTO
Che la scienza sia al servizio anche della politica e di chi decide delle nostre sorti è un dato assodato. Ma che venga ascoltata e che le sue previsioni siano prese sul serio, tanto da orientare scelte e strategie a livello locale e globale, questo non è proprio detto. Sta accadendo con i rischi connessi ai cambiamenti climatici. Gli scienziati mettono sull’avviso, ammoniscono, danno indicazioni, e i grandi del pianeta che fanno? Continuano sulla loro strada.
La 52° Giornata della Terra, che si festeggia in tutto il mondo il 22 aprile con le iniziative e gli eventi green organizzati dall’Earth Day, è stata indetta dall’Onu per promuovere l’armonia con la natura e ricordarci che raggiungere un equilibrio tra i bisogni economici, sociali e ambientali è un obiettivo fondamentale. Lo sa bene Antonello Pasini, ricercatore dell'Istituto inquinamento atmosferico del Cnr, docente di fisica del clima all’università Roma Tre, autore di molte pubblicazioni specialistiche e divulgative, che parte da un assunto: “La Terra è sopravvissuta a cataclismi più grandi della presenza dell’uomo, la sua biodiversità permette di superare qualsiasi crisi. Il problema è tutto nostro. È la nostra società che può andare in crisi, perché è globalizzata e complessa e non ha la resilienza sufficiente per resistere”.
Quindi ci conferma che a rischio non è la sopravvivenza della Terra ma la nostra?
È così. La comunità umana è tutta sulla stessa barca. Ma non stiamo tutti allo stesso modo. C’è chi sta meglio e chi sta peggio, c’è chi ha la possibilità di superare meglio questa crisi e chi lo farà peggio. Le popolazioni africane sono quelle che hanno contribuito meno al cambiamento climatico, ma probabilmente patiranno i danni maggiori, perché hanno condizioni estreme già in partenza, con aree molto calde e molto umide, e società sono fragili: ci sono meno mezzi a disposizione per combattere, l’agricoltura è di pura sussistenza, non ci sono riserve di cereali in grado di superare due o tre anni di siccità, le risorse idriche si stanno esaurendo.
Il tema dell’Earth Day di quest’anno è “Invest in Our Planet”. Che cosa significa secondo lei?
Il verbo investire è puramente economico. Qui si tratta di investire nel pianeta e nel nostro benessere. Senza l’uno, non ci può essere l’altro. Attenzione però: non possiamo misurare tutto attraverso il Pil, che valuta la crescita in termini di produzione. Il paradigma di crescita infinita che conosciamo e pratichiamo non può funzionare in un pianeta finito. Noi scienziati lo abbiamo ben presente, da un punto di vista scientifico non regge. Quindi va cambiato il paradigma. Saranno gli economisti a salvarci ma è necessario che inizino a pensare in maniera diversa, non in termini di Pil ma di indici del benessere. Finché non si muove l’economia, quello che dice la scienza rischia di rimanere lettera morta. Puoi anche provare a disaccoppiare la produzione di CO2 dalla produzione industriale ma la coperta rimane corta, la tecnologia da sola non può risolvere i problemi.
Si può spiegare meglio?
Passare da un’auto a combustione interna a una elettrica (o due) potrebbe non essere sostenibile. Certamente aiuta a limitare le emissioni, ma per produrre le batterie ci vogliono materiali rari, difficili da estrarre. È per questo che bisogna considerare i processi a tutto tondo e che è il paradigma che va cambiato, che è l’ora dell’economia circolare. Sapere che non si può continuare a crescere in questa maniera, significa limitare le proprie emissioni, cambiare stili di vita, pensare a una mobilità diversa. In definitiva fare scelte che fanno bene a noi, alla nostra salute e a quella del pianeta.
Ci faccia un esempio professore.
Senza demonizzare i grassi animali, sappiamo che la carne rossa aumenta il colesterolo nel sangue, per produrla si consumano molte risorse e inquina con emissioni di CO2. Tre ottime ragioni per smettere di ingozzarsene. Ma se aspettiamo di buttare giù il capitalismo non facciamo in tempo a fermare il cambiamento climatico, mentre se diventa economicamente conveniente possiamo salvare la pellaccia.
A che punto sono secondo lei i processi di transizione?
In Cina c’è stata una svolta importante verso le rinnovabili grazie alla spinta dell’opinione pubblica. La gente era arrabbiata perché nelle città si muore a causa dell’inquinamento atmosferico, e i membri del partito hanno capito che non si poteva andare avanti con le fossili. Adesso il 50 per cento dei pannelli fotovoltaici sono prodotti in Cina. Negli Stati Uniti il settore delle rinnovabili sta acquisendo sempre più importanza. L’Europa si è data obiettivi ambiziosi. Se tre grandi continenti continueranno su questa strada, se diventerà maggioritaria, remare contro a quel punto non sarà più conveniente e il carbone e il petrolio non saranno competitivi.
E l’Italia?
L’Italia sconta parecchi ritardi: vent’anni fa, quando un metro quadro di pannello costava venti volte rispetto a oggi, davamo incentivi all’installazione, mentre adesso non li diamo. Ci sono 60 gigawatt di impianti bloccati da burocrazia e autorizzazioni: se li installassimo potremmo fare a meno del 20 per cento del gas importato. E con la guerra in Ucraina anziché premere l’acceleratore sulle rinnovabili, ci stiamo affannando a cercare approvvigionamenti alternativi al gas russo. Peraltro stingendo accordi con Paesi che non sono poi tanto sicuri. Quello che ci vuole è una spinta dal basso, come consumatori abbiamo un potere, dobbiamo premere perché le cose cambino, perché la transizione si faccia e affinché a pagare non sia la gente, non siano i lavoratori.
Mentre il nostro Paese vive in prima linea le conseguenze dei cambiamenti climatici, dalla siccità alle ondate di calore, dagli eventi estremi alle alluvioni lampo, ancora si discute se e come fare la transizione ecologica. Perché?
C’è la convinzione che si perderà occupazione ma non è così. Certamente ci sono lavori che scompariranno, sostituiti però da altri. Ci sono studi che dimostrano che la transizione espanderà la platea dei lavoratori e non la contrarrà. Quindi è un processo che va gestito e programmato, non possiamo lasciare che si realizzi da solo.