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Se qualcuno ci minacciasse con il classico “o la borsa o la vita”, chiunque di noi risponderebbe “la vita!”. La stessa domanda fatta sul tema dei cambiamenti climatici, dove per borsa si intende il profitto e per vita il preservare la vita sulla Terra, in tutti questi anni abbiamo sempre risposto “la borsa!”. È questa l’idea di fondo dell’ultimo libro di Andrea Baranes, ricercatore della Fondazione Finanza etica e membro delle reti europee Finance Watch e Federazione delle banche etiche e alternative, dal titolo appunto “O la Borsa o la vita” (Ponte alle Grazie).
“Si fa un gran parlare dei cambiamenti climatici ma la maggior parte degli interventi che si realizzano tutelano i profitti – precisa Baranes -. Il clima è solo una variabile su cui giocare in termini di compravendita di emissioni e di mercato dell’anidride carbonica”.
Ci può spiegare meglio?
La Cop 3, il vertice annuale delle Nazioni Unite per agire contro i cambiamenti climatici, quello che nel 1997 ha portato alla sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, ha chiesto ai Paesi, soprattutto a quelli più industrializzati, di ridurre la concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera. Per farlo ha fissato gli obiettivi di emissione e ha affidato a meccanismi di mercato la possibilità di comprare o vendere CO2 equivalente. Questo vale per le nazioni come per le imprese: chi emette meno può vendere la differenza, chi emette di più può compensare la quota eccedente.
L’impostazione è neoliberista?
Sì, niente regole ma un approccio volontario, dove sono gli inquinatori a decidere se e quanto conviene inquinare. Ha vinto il dogma di un mercato onnipresente dove tutto può essere comprato e venduto, persino il sistema climatico.
Il sistema scelto dunque non ha funzionato?
Non è andato nella direzione sperata. Le banche e la finanza guardano ai cambiamenti climatici unicamente per vedere se questi possono avere degli impatti sui loro profitti e non il contrario, cioè non se, quanto o come le attività e i finanziamenti hanno effetti su emissioni e clima. Lo stesso fa la comunità internazionale. Per esempio: si costruisce una centrale a carbone solo se ci si guadagna abbastanza per compensare le emissioni, cioè comprarle. Il principio che si adotta non è “chi inquina paga” ma “chi paga può inquinare”. Il problema è che si sottopone l’impegno sul clima a un calcolo meramente economico.
Anche il mercato delle emissioni è stato fallimentare?
Il 90 per cento delle compensazioni non funzionano, non hanno avuto alcuna efficacia nel diminuire le emissioni di CO2. Sono 20 anni che si cercano aggiustamenti, perché il prezzo era troppo basso e non fungeva in alcun modo da deterrente, tanto che si è intervenuti a livello europeo per aumentarli. Poi sono state scoperte truffe e scandali. È la conferma che il libero mercato non è in grado di autoregolarsi ma necessita di correttivi legislativi.
L’approccio neoliberista ci sta di fatto impedendo di abbandonare le fonti fossili?
L’approccio di mercato è diventato un alibi e ha rallentato il dibattito su possibili alternative, nonostante le agenzie dell’Onu ci dicano che già tra sette anni, nel 2030, supereremo gli obiettivi fissati dalla Cop 15 di Parigi, e cioè 1,5 gradi centigradi di riscaldamento globale: il 70-80 per cento è attribuibile all’estrazione e alla combustione di carbone e petrolio. Alcuni scienziati hanno proposto di fare un trattato internazionale per la progressiva uscita dalle fossili, come quello sulla biodiversità o sulla produzione di mine antiuomo. La prima volta in assoluto in cui se ne è parlato è stato a Glasgow, alla Cop 26. L’ultimo giorno dei negoziati però una manina ha sostituito nel testo finale “phase out” con il termine “phase down”, non “uscita” ma diminuzione della dipendenza dal carbone.
Come vede la Cop di Dubai, dal primo dicembre negli Emirati Arabi?
La vedo malissimo, le premesse sono pessime. Alle ultime conferenze abbiamo visto come l’agenda sia pesantemente influenzata dai lobbisti dell’industria fossile, che riescono a orientare i negoziati in una certa direzione. Questa si tiene nel Paese che è il settimo produttore di petrolio e tra i principali esportatori, il presidente è l’amministratore delegato di un’impresa petrolifera: sembra uno scherzo di cattivo gusto.
In Europa qual è la situazione?
Mi sembra che stiamo facendo molto poco e male, siamo terribilmente in ritardo, nella Ue come in Italia. Anche sul fronte del Pnrr ci sono poche risorse per la transizione energetica e per i progetti che potrebbero servire a cambiare il sistema economico. Stiamo continuando a dare sussidi impliciti ed espliciti alle fonti fossili. E in vista delle elezioni europee a Buxelles il sentimento che gira è che noi abbiamo già fatto abbastanza: mentre mettiamo paletti alle nostre imprese, gli altri non lo fanno e così perdiamo di competitività.
Il libro contiene anche delle proposte. Quali?
Oltre al trattato sulle fonti fossili e alla tassa sul carbonio di cui tanto si è parlato, si potrebbe indirizzare il sistema finanziario e le banche. Ecco come: nel momento in cui si dà un prestito si dovrebbe calcolare anche il rischio ambientale. In questo modo finanziare le fonti fossili sarebbe più oneroso del dare soldi all’efficienza energetica per esempio. Un altro strumento potrebbe essere quello dei vincoli ambientali: ti presto i soldi a un tasso inferiore se tu dimostri che raggiungi obiettivi a carattere ambientale. Ci vorrebbero strumenti legislativi ma anche spinte dal basso: anziché pretendere il massimo profitto nel minor tempo possibile, il risparmiatore dovrebbe chiedere alla banca come investe i suoi soldi, se nelle fossili o nei prodotti sostenibili. Questa è l’idea di fondo della finanza etica.