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Novantasette trilioni di dollari: è l’importo del debito pubblico globale, solo un terzo del quale riconducibile ai Paesi più poveri. Una cifra che rappresenta un grande problema per la tenuta dei conti degli Stati a economia avanzata, ma anche un alibi contro gli investimenti pubblici che la transizione energetica e dei sistemi di produzione richiede, con pari urgenza rispetto a quelli necessari per prevenire e compensare i danni prodotti dai cambiamenti climatici.
Gli impegni di finanza per il clima assunti dai Paesi membri nell’ultima Conferenza delle parti Onu, la Cop 28, ammontano a circa 800 milioni di dollari, largamente disattesi, mentre si stima che ogni anno i disastri ambientali costino ai soli Paesi più vulnerabili oltre 800 miliardi di dollari.
Queste cifre lasciano pochi dubbi su dove si dovrebbe indirizzare il grosso degli investimenti pubblici e privati, eppure gli economisti dell’agenzia Onu Unctad stimano che i fondi che vanno a sostenere direttamente nuovi progetti che puntano sui carburanti fossili, aggravando le condizioni ambientali attuali, ammontino ancora oggi a oltre un trilione di dollari l’anno.
I soli sussidi alla produzione ogni anno superano i 50 miliardi di dollari annui. Servirebbero, invece, almeno 4 trilioni di dollari l’anno per finanziare una transizione giusta e centrare in tempo utile gli obiettivi dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile. E 4 trilioni di dollari sono invece, giusti giusti, i profitti che l’industria petrolifera e del gas hanno incassato nel solo 2022.
Sembra anche questa una grande somma, eppure parliamo di circa l’1% di tutti gli asset finanziari a livello globale, che valgono attualmente circa 470 trilioni di dollari. Con l’alibi del debito pubblico si giustifica l’inazione, ma nessuno chiede conto di tutto quel denaro che servirebbe a cominciare a metterci in salvo, ma che ancora scivola via in oleodotti e gasdotti o incenerito. Eppure fin dalla COP 26, con la Clean energy transition partnership, si era deciso di tagliare i finanziamenti internazionali pubblici, e i G7 avevano fissato al 2025, l’anno prossimo, la fine di tutti i sussidi pubblici ai combustibili fossili.
Questa campagna e le sue giornate d’azione servono per ribadire – e far capire a più persone possibile – che i soldi per curare il pianeta ci sono, dobbiamo farli tirare fuori e spendere bene. Dobbiamo spiegare che ‘bene’ non significa – come pure sostiene la legislazione europea sugli investimenti verdi – che il gas o l’idrogeno al livello tecnologico attuale siano carburanti green utili alla transizione. ‘Bene’ non significa nemmeno buttare risorse necessarie e urgenti nei deliri atomici, che speravamo archiviati con i fumetti tecno-horror del precedente secolo. Con buona pace del nuovo rapporto Draghi sulla competitività Ue.
Transizione giusta significa, invece, ottenere dai nostri governi fondi, strategie e normative con tempi certi per l’addio ai carburanti fossili. Significa anche pretendere che i privati – imprenditori e investitori – facciano la loro parte nei processi di decarbonizzazione, vincolando i propri portafogli e politiche produttive a un cambiamento necessario, che non possiamo più rinviare, e i cui costi hanno, fino a oggi, in larga parte eluso e scaricato su natura, lavoratori e casse pubbliche.
Monica Di Sisto è responsabile dell’Osservatorio su clima e commercio Fairwatch