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Una strada lunga, in salita e piena di incognite. È quella che la Ue ha imboccato per realizzare la transizione verde e attuare i principi del Green Deal, che vogliono far diventare l’Europa il primo continente a impatto climatico zero. Mentre sulla carta si continua a dichiarare la riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030, per arrivare al 100 per cento al 2050, nei fatti, nella pratica, quegli obiettivi sembrano sempre più lontani. Anche perché non vengono individuati gli strumenti e tanto meno le risorse per raggiungerli.
Il prezzo della competitività
L’ultimo atto in ordine di tempo è il Clean Industrial Deal presentato dalla Commissione il 26 febbraio scorso, una proposta di riforme con cui si intende proseguire sul percorso tracciato dal primo mandato di Ursula von der Leyen, e dare seguito al piano per salvaguardare il futuro della competitività europea elaborato da Mario Draghi e centrato su tre pilastri: innovazione, decarbonizzazione e sicurezza. Competitività che però ha un prezzo che qualcuno deve pagare. L’impressione è che quel qualcuno siano l’ambiente e i lavoratori.
Clean Industrial Deal: poche luci
“Sulla carta il Clean Industrial Deal presenta alcuni aspetti positivi, ma è molto carente per altri e negativo per altri ancora – spiega Simona Fabiani, responsabile politiche per il clima, il territorio, l’ambiente e la giusta transizione della Cgil -. Da un lato, infatti, considera la decarbonizzazione un motore di crescita e una soluzione per ridurre i costi energetici, mantiene l’impegno di ridurre le emissioni del 90 per cento al 2040, dà priorità alla circolarità e afferma l’impegno ad accelerare l'elettrificazione e la transizione verso l'energia pulita prodotta a livello nazionale. Dall’altro, non definisce finanziamenti e investimenti. Si prevede un fabbisogno di 480 miliardi all’anno per portare avanti le politiche, e il testo parla di revisione degli aiuti di Stato, dell’uso del fondo per la competitività, ma questo verrà costituito con il prossimo quadro finanziario pluriennale quindi non prima del 2028, e della costituzione di una banca per la decarbonizzazione. Ma non c’è nessuna certezza delle risorse”.
Molte ombre
Manca la parte sulla giusta transizione e sebbene in un passaggio si parli di lavoro, quella parte non è sufficientemente incisiva. Secondo i sindacati ci vorrebbe una direttiva ad hoc: affinché si concretizzi un’accelerazione, questa deve essere accompagnata da misure specifiche per l’occupazione. Tra le altre carenze, non c’è la tabella di marcia per l’uscita dalle fossili, non ci sono gli interventi e gli investimenti per la produzione e le infrastrutture per le rinnovabili e la creazione di nuovi posti lavoro.
Di contro, sono invece previsti aiuti di Stato per le tecnologie nucleari e per il gas, che non risolvono il problema dei costi energetici e neppure rispettano i tempi della decarbonizzazione. Addirittura si parla di contratti a lungo termine per il Gnl, gas naturale liquefatto, che aumenterà a lungo termine la dipendenza energetica, manterrà alti i costi e allontanerà ulteriormente la decarbonizzazione. E ancora: l’equiparazione dell’idrogeno a basse emissioni all’idrogeno verde, il voler puntare sul mercato della cattura del carbonio e sui piccoli reattori modulari, tecnologie che non sono mature, hanno costi elevati, in pratica un alibi per non investire sulle rinnovabili.
“Si afferma il principio di neutralità tecnologica, che rallenta i tempi della decarbonizzazione e non riduce i costi dell’energia – prosegue Fabiani -. Le priorità invece dovrebbero essere altre, gli investimenti e i sostegni destinati alle rinnovabili e alle tecnologie pulite, in un’ottica di dimensione sociale”.
Piano per l’energia
Anche il piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili presentato dalla Commissione cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ovvero dichiara intenti condivisibili e in linea con il Green Deal, ma poi nella concretezza non sembra andare in quella direzione.
Individua nelle fossili la causa degli prezzi alti dell’energia, sostiene la decarbonizzazione, riduce la tassazione solo per l’energia prodotta da rinnovabili. Ma poi, mentre abbassa i tempi di autorizzazione per le fonti alternative, semplifica anche le procedure per le nuove tecnologie nucleari, fornisce sostegno al nucleare da fusione, una tecnologia incompatibile con le urgenze dell’azione climatica.
“E poi mancano i 584 miliardi di euro di investimenti nelle reti elettriche – dice Fabiani della Cgil -, i 570 miliardi di euro all'anno tra il 2021 e il 2030 e i 690 miliardi all'anno tra il 2031 e il 2040 di investimenti nelle rinnovabili necessari per raggiungere gli obiettivi energetici e climatici. E mentre non ci sono le risorse per la transizione industriale e per le rinnovabili, si prevedono 800 miliardi per le spese militari, davvero una vergogna. Manca ancora la revisione del meccanismo di prezzo marginale per separare quello dell’energia elettrica da fonti rinnovabili”.
I decreti
In quest’analisi dei passi all’indietro che la Ue sta compiendo, vanno citati anche i decreti Omnibus e 28° regime, che vanno nella direzione di voler ridurre il costo del lavoro e le tutele a favore dell’ambiente e del clima.
“La Commissione ha assecondato le pressioni delle parti imprenditoriali che chiedono semplificazioni sulle questioni ambientali e climatiche e anche del lavoro, con una vera e propria deregolamentazione – conclude Simona Fabiani -. La chiamano semplificazione necessaria, ma di fatto si cancellano gli obblighi e i sistemi di rendicontazione delle aziende riferiti alla sostenibilità e alla transizione ecologica. In definitiva, i recenti provvedimenti sanciscono un tentativo di smantellamento del Green Deal che dobbiamo impedire”.