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“A una lettura attenta del documento finale approvato a conclusione del G20, delle decisioni prese e delle dichiarazioni fatte, sul fronte della lotta al riscaldamento globale non c’è stato alcun passo in avanti. Anzi, su qualcosa si è tornati anche un po’ indietro”. Simona Fabiani, responsabile Ambiente e territorio della Cgil nazionale, non ha dubbi. A dispetto dei toni positivi e talora trionfalistici che in Italia hanno accompagnato la chiusura del forum a Roma dei grandi della Terra, e l’apertura della Cop 26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in corso a Glasgow, in Scozia, il patto per il clima siglato dalle superpotenze è una delusione: formalizza quanto già acquisito, senza però prevedere impegni, risposte, azioni concrete.
Ribadisce la necessità di contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5°C, lo stesso obiettivo già presente nell’Accordo di Parigi del 2015, ratificato da 191 Paesi, che rappresentano oltre il 97 per cento delle emissioni, ma non definisce le azioni per raggiungere questo obiettivo. “Peccato che l’ultimo Rapporto dell’Ipcc, il panel intergovernativo dell’Onu, ci racconti che con gli impegni assunti finora, sempre che vengano rispettati, si arriverà a 2,7°. Mentre se manterremo la traiettoria attuale, è certo che andremo anche oltre - aggiunge Fabiani -. Questo ci dice quanto sia urgente agire e farlo adesso, dimezzare le emissioni entro il 2030”.
Anche le intese annunciate con enfasi a neppure 24 ore dalla cerimonia di apertura della kermesse scozzese, l’accordo firmato da 105 Paesi, tra cui anche Cina, Russia e Brasile, per fermare la deforestazione entro il 2030, con un impegno economico di 12 miliardi di dollari, e l’iniziativa lanciata da Stati Uniti e Unione Europea che punta ad abbattere le emissioni di gas metano del 30 per cento in vent’anni (ma senza l’adesione di Cina e India), sono da verificare quanto a portata e a impatto reale su un’emergenza globale come quella climatica.
Il documento del G20 affronta tanti temi e contiene indicazioni che i governi dovranno tradurre in pratica nei prossimi anni. Partiamo dalla produzione di energia dal carbone: in questo caso si stabilisce uno stop agli investimenti all’estero, ma nulla si prevede sullo sviluppo di questa fonte fossile nei confini nazionali, né si tocca l’argomento dello sfruttamento del petrolio e del gas. Il pensiero va subito alla Cina, grande assente al summit internazionale, che su questo fronte non rallenta e anzi brucia la metà di tutto il carbone consumato nel mondo, nonostante gli impegni per il taglio di emissioni, e in più ne aumenta la produzione, incrementandola con un milione di tonnellate al giorno.
“Poi c’è la questione dell’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica al 2050: una data precisa che è diventata invece vaga: la metà del secolo – spiega Fabiani -. Con tre importanti eccezioni. Pechino e Mosca, che hanno promesso la neutralità carbonica entro il 2060, e l’India, per la quale non sarà possibile centrare l’obiettivo prima del 2070. Prendersi dieci anni o venti in più non vuol dire maggiore gradualità, ma di fatto emettere gas serra per altri dieci o venti anni. Di positivo sicuramente c’è l’impegno degli Usa, che erano usciti dall’Accordo di Parigi e che invece hanno ribadito la necessità di rispettare il tetto di 1,5°. Ma averlo confermato non basta, perché non si realizza da solo”.
La finanza per il clima è un altro capitolo fondamentale, che non si è chiuso come si sperava: i 100 miliardi all’anno da destinare ai Paesi più poveri, vittime di una storia di disuguaglianza, sia per l’adattamento che per gli investimenti in tecnologie pulite, sono slittati dal 2020 al 2023. “I cento miliardi all’anno per la transizione, che sono comunque pochi, ancora non sono stati stanziati – dice Simona Fabiani -. E non lo saranno prima del 2023. È vero che ogni Paese si è impegnato a contribuire con qualcosa in più ma non si può continuare a posticipare. Inoltre, non c’è una sola parola sulla cancellazione del debito dei Paesi poveri, una misura indispensabile rispetto al debito ecologico e sociale che abbiamo maturato”.
Non ultimo, il tema dell’equità. “Nella dichiarazione finale del G20 i cambiamenti sono finalizzati a mantenere il sistema attuale - prosegue Fabiani -. Noi invece sosteniamo la necessità di un cambiamento radicale di sistema per il raggiungimento di tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, per la piena e buona occupazione e per un’equa distribuzione delle risorse”. Prendiamo la Cina, che è il grande emettitore di gas serra ma se guardiamo alle emissioni pro capite di CO2 scopriamo che sono inferiori a quelle degli Usa e tanti altri Stati occidentali. Senza contare che noi abbiamo iniziato prima, dai tempi della rivoluzione industriale. E poi ci sono i Paesi meno avanzati di Africa, Asia, Pacifico e Caraibi, con emissioni pro capite bassissime, nessuna responsabilità storica e che sono quelli che pagano il prezzo più alto del cambiamento climatico . E allora, mentre ci sono nazioni che hanno bisogno di crescere e di arrivare ad acquisire diritti fondamentali, noi non possiamo continuare a sprecare, perché le risorse sono limitate.
“Il cambiamento di sistema non è né scontato né semplice, ma è necessario – conclude Fabiani -. Le possibilità per attuarlo ci sono, non bisogna aspettare le tecnologie di domani. La riconversione ambientale, climatica e sociale, che comporterà la creazione di nuova e buona occupazione, per la sostenibilità e il ripristino degli ecosistemi, è ciò che siamo chiamati a fare adesso. L’occasione è irripetibile, ma della giusta transizione sembra non esserci più alcuna traccia”. Occhi puntati quindi alla Cop26, che però gli osservatori internazionali hanno già ribattezzato flop26, con un chiaro riferimento al fatto che potrebbe essere un ennesimo fallimento, capace di produrre un accordo peggiore di quello esistente.