Non c’è più tempo, gli Stati hanno bisogno di fondi per affrontare la crisi climatica ora. Tuttavia, molti Paesi del cosiddetto Sud globale sono costretti a rimborsare ogni anno ingenti somme ai loro creditori, cosa che di fatto impedisce loro di poter rispondere all’impatto e ai crescenti costi della crisi climatica.

Allo stesso tempo, gli eventi climatici estremi e la morsa dei prestiti e dei tassi di interesse costringono questi Paesi a indebitarsi ancora di più, mantenendo molti di essi bloccati nella produzione di combustibili fossili, come principale fonte di reddito per garantire il pagamento del debito, e creando un circolo vizioso dal quale sembra impossibile uscire.

È questo il tema della sesta giornata della Global week of Action, dal 13 al 20 settembre mobilitazioni, iniziative e un calendario di eventi sui cambiamenti climatici.

La Cgil insieme ai sindacati africani sostiene un’iniziativa globale per la rimozione del debito, un’azione politica necessaria per assicurare una vera lotta incisiva al cambiamento climatico e uscire dalla trappola del debito.

I pagamenti del debito dei 50 Paesi più vulnerabili alla crisi climatica sono raddoppiati dall'inizio della pandemia di Coronavirus e ora si trovano al livello più alto in più di tre decenni. Secondo uno studio della rete Climate Action, nei prossimi dieci anni il debito dei Paesi dell'Africa subsahariana raggiungerà i 996 miliardi di dollari, con un aumento del 50 per cento rispetto agli attuali livelli di debito in percentuale al Pil.

I Paesi del G7 rappresentano il 38 per cento del Pil mondiale e sono i maggiori responsabili della crisi climatica e ambientale. Lo sono soprattutto storicamente, ma anche oggi, visto che continuano a generare il 21 per cento delle emissioni totali globali, mentre il continente africano, solo per fare il paragone più eclatante, è responsabile di meno del 4 per cento.

La cooperazione internazionale per l’azione sul clima alla base dell'Unfccc e dell'Accordo di Parigi prevede l’erogazione di finanziamenti per il clima dai Paesi ricchi e inquinanti, il cosiddetto Nord del mondo, ai Paesi in via di sviluppo, basandosi sul principio della responsabilità comune ma differenziata.

Tuttavia, non tutti i finanziamenti per il clima sono uguali. La maggior parte della finanza per il clima attuale è composta da prestiti, contribuendo così ad aumentare il carico di debito già insostenibile e, di fatto, esternalizzando il costo della crisi climatica sui Paesi più vulnerabili. Secondo l’Ocse nel 2020 solo il 26 per cento dei finanziamenti per il clima era costituito da sovvenzioni. Il 71 del resto è costituito da prestiti e il 3 da azioni.

Le ricadute e gli impatti dell’emergenza climatica sono globali. Per garantire una giusta transizione equa e inclusiva a livello globale è necessario quindi sollevare gli Stati più poveri e più colpiti dagli eventi calamitosi dalla morsa del debito.

Per questo è necessario sostituire il modello capitalistico attuale della finanza per il clima basata sui prestiti con un modello di finanza basato sulle sovvenzioni e sul riconoscimento del debito climatico nei confronti dei Paesi in via di sviluppo da parte delle nazioni storicamente inquinanti che hanno una responsabilità primaria e diretta nella crisi climatica attuale e che affonda le proprie radici nel colonialismo.

Quella attuale è un’architettura finanziaria internazionale iniqua che accentua le disuguaglianze globali e rischia di strumentalizzare e piegare la finanza per il clima alle logiche della guerra geopolitica tra blocchi. Non è un caso che negli ultimi anni la Cina sia diventata uno dei più importanti investitori e creditori per i Paesi emergenti, attraverso la Belt and Road Initiative, un progetto globale dal valore di più di 2 miliardi di dollari tra il 2005 e il 2022.

La Cgil rifiuta le logiche neocoloniali legate alla finanza per il clima e chiede un cambiamento sistemico che implica non solo il riconoscimento del debito climatico, ma anche la restituzione e il risarcimento per la molteplicità di debiti finanziari, sociali ed ecologici che il Nord globale deve al Sud del mondo, costruiti nel passato coloniale e attraverso le dinamiche neocoloniali di oggi.

Mabel Grossi, area delle politiche europee e internazionali Cgil