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Siamo quasi alla fine di una campagna elettorale estenuante, che ancora oggi stenta a entusiasmare: non è difficile immaginare che il tasso di astensionismo possa toccare nuove vette. Il quadro appare ancora più desolante se ci si pone alla ricerca dello spazio dedicato al mondo del lavoro, spesso strumentalmente citato per avallare la consumata retorica della necessità di abbassare le tasse sul lavoro e aumentare gli incentivi per le assunzioni, e alla transizione ecologica, che già oggi sta fortemente rimodulando (in modo purtroppo non controllato dallo Stato) il settore occupazionale, si veda il caso dell’automotive.
All’orizzonte non emerge dunque in maniera chiara la connessione tra il mondo del lavoro e la transizione ecologica e men che meno viene indicata una strada per superare l’attuale modello di sviluppo economico. Sintomo di come anche negli ambienti sedicenti progressisti vi sia una sorta di rassegnazione nei confronti del modello economico dominante. Il trionfo di anni di egemonia neoliberale e del “there is no alternative”. Per questo come movimento ecologista sentiamo la necessità di problematizzare questa rassegnazione, consci dell’inerzia del sistema, ma altrettanto consapevoli che nulla è scolpito sulla pietra e che è fondamentale costruire un nuovo immaginario per cui lottare. In tal senso si muove la nostra agenda climatica, al cui interno vi sono una serie di proposte che riteniamo centrali tanto per l’abbattimento delle emissioni quanto per rivoluzionare e democratizzare il lavoro.
Anni di retorica neoliberale hanno quasi completamente seppellito il dibattito economico sulla piena occupazione, al punto che quasi nessun partito ha inserito un riferimento a tale questione all’interno del proprio programma. Un’assenza che non può essere perdonata in un momento congiunturale in cui per far fronte all’inflazione la Banca centrale europea ricorre, in piena ottemperanza al suo unico miope obiettivo (appunto il controllo dell’inflazione), a un aumento dei tassi di interesse, producendo dunque una possibile ulteriore riduzione della domanda e un aumento della disoccupazione. Vale inoltre la pena ricordare come la nostra Costituzione sia caratterizzata dalla centralità del diritto al lavoro e della sua necessaria promozione da parte della Repubblica.
Un piano di occupazione di ultima istanza, assicurato chiaramente dallo Stato, garantirebbe a ogni individuo in età lavorativa l’accesso a un impiego ben retribuito e sicuro, dotato inoltre di tutele sindacali. Ciò spingerebbe le imprese verso un modello basato su innovazione e formazione, ponendo fuori mercato quelle fondate strutturalmente sulla competizione al ribasso dei salari. Le attività presenti nel programma non dovrebbero includere i servizi essenziali, ma progetti a beneficio della collettività e dell’inclusione sociale.
In una prospettiva di post-crescita la riduzione dei consumi svolge un ruolo centrale. Contrariamente alla vulgata del populismo anti-ambientalista, tale diminuzione dei consumi è pensata per essere coniugata con le altrettanto prioritarie esigenze dei lavoratori. In questo senso hanno una funzione importante misure come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e un salario minimo garantito.
Il primo intervento sarebbe in grado di rendere l’automazione e l’innovazione tecnologica elementi emancipatori tali da offrire tempo liberato alla classe lavoratrice, e non, come finora prevalentemente avvenuto, aumentare la mole della produzione lasciando crescere la disoccupazione e invariati (se non aumentati) i tassi di sfruttamento.
La seconda misura risponderebbe alla necessità di piena attuazione del requisito costituzionale della sufficienza della retribuzione (art. 36, 1° co, Cost.). Non può essere affrontata la crisi climatica chiudendo gli occhi dinanzi alle sacche di povertà e disuguaglianza sociale, occupate in parte sempre maggiore dai cosiddetti lavoratori poveri, che affliggono il nostro Paese. Sul punto sono poche le forze politiche che riescono a cogliere la portata del problema. Molti infatti parlano a sproposito di un salario minimo legale che si imporrebbe solo laddove non fosse operante la contrattazione collettiva. Questo non significa tutelare le organizzazioni sindacali.
Un salario minimo legale con efficacia erga omnes non minerebbe la forza della contrattazione collettiva nei settori in cui essa persista davvero. Uno sguardo sincero però sulle relazioni industriali del nostro Paese rende l’immagine di troppi contesti in cui, per svariate ragioni legate anche al ristrutturarsi stesso del sistema produttivo, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali, e quindi il conseguente salario frutto di contrattazione collettiva, è evidentemente scarso. Quindi si moltiplicano retribuzioni, frutto della contrattazione collettiva, non idonee per il lavoratore “ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.
Di fronte alla scarsa lungimiranza dei partiti, la costruzione dell’alternativa deve muovere dalla capacità del movimento dei lavoratori di imporre temi e proposte, anticipando la politica (in tremendo e colpevole ritardo) e non temendo di eccedere in radicalità, perché di fronte ai nostri occhi si sta chiudendo la finestra delle scelte necessarie a salvarci dalla crisi climatica e sociale.
Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane, Fridays For Future Italia