Abramo, Almaviva, Customer Digital Service. Sono nomi che evocano i numeri di una crisi. Quella del settore dei call center, da ormai più di vent’anni al centro di una trasformazione del lavoro – e della sua precarizzazione – che nel corso del tempo ha mostrato tutte le sue falle. Nomi di aziende che sono anche titoli di vertenze affrontate singolarmente, piuttosto che come segmenti di una più complessa problematica strutturale.

LA RICHIESTA DI INCONTRO

“Per questa ragione, innanzitutto, abbiamo chiesto l’ennesimo incontro ai ministri del Lavoro e del Made in Italy, Marina Calderone e Adolfo Urso”, spiega Davide Carchidi, che per la Slc Cgil segue il settore che conosce come le proprie tasche. Ci ha lavorato per diversi anni, prima di assumere un ruolo attivo nel sindacato. E lo ha fatto in una terra come la Calabria, dove i call center rappresentano oggi una delle poche opportunità di lavoro. “Pensi di poterci entrare da giovane, per mantenerti agli studi, avere qualche extra che ti renda la vita più facile. E invece finisci col restare qui per la vita”, osserva.

LA BANGALORE D’ITALIA

Carchidi racconta di come si può rimanere incastrati in un lavoretto provvisorio che diventa definitivo per mancanza di alternative, in quella che veniva definita la Bangalore d’Italia, perché ogni azienda aveva un call center in outsourcing al Sud. Se, però, fino a qualche tempo fa poteva avere ancora un senso affrontare le vertenze una alla volta, oggi siamo di fronte alla crisi strutturale di un sistema malato.

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PIÙ APPALTI MENO DIRITTI

Lo denuncia la Slc Cgil, soprattutto per quanto riguarda i call center esternalizzati, che subiscono tra le altre cose anche le problematiche proprie del sistema degli appalti. “Non è pensabile tornare in dietro su diritti e salario. Ma quando un’azienda partecipa a una gara, la prima voce su cui risparmia per essere competitiva è proprio il costo del lavoro”. Oggi nel settore sono impiegate circa 40 mila persone. Nel 2010 erano circa 70 mila, e questo numero rischia di contrarsi ulteriormente a fronte delle strade aperte dall’intelligenza artificiale.

CONTRATTARE PER MIGLIORARE

“Ecco perché – insiste Carchidi – è fondamentale giocare d’anticipo, grazie allo strumento della contrattazione”, grazie al quale oggi il salario minimo nel settore è al di sopra dei 9 euro. Resta, tuttavia, il problema del part-time involontario, che impedisce a lavoratrici e lavoratori di arrivare a fine mese con uno stipendio adeguato al costo della vita”. La contrattazione è fondamentale, ma come sostiene il sindacalista, non può essere l’unica risposta. Occorre un nuovo orizzonte normativo.

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E la politica? La politica non risponde, come dimostra il silenzio dei ministri Calderone e Urso di fronte all’ennesima richiesta di incontro da parte delle organizzazioni sindacali. “Di fronte al tema della digitalizzazione, delle app che sostituiranno gradualmente i call center, delle evoluzioni tecnologiche che spiazzeranno i lavoratori, il governo mette una toppa, comprando un altro anno di vita”.

IL CONTRATTO DELLE TELECOMUNICAZIONI 

I solleciti per un incontro da parte dei sindacati sono stati diversi nel corso di questi mesi, a partire da marzo del 2024, quando hanno indicato la strada da seguire: “Rendere il contratto nazionale delle telecomunicazioni il punto di riferimento per tutti i call center esternalizzati”. In questo modo, spiega il sindacalista, si combatterebbe in maniera preventiva la giungla dei contratti pirata, che nel settore sta affondando solide radici.

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PRONTI ALLA MOBILITAZIONE

Sul tavolo sono molteplici le questioni da affontare, se si vuole superare la crisi strutturale del settore: precarietà, appalti, sviluppi tecnologici che rischiano di trasformare lavoratrici e lavoratori in figure di archeologia industriale. Proprio per questo il sindacato chiede percorsi di formazione continua per adeguarsi al mercato che cambia. Le domande sono molte, ma al momento il governo non risponde. “E se dovesse continuare così – conclude Carchidi – siamo pronti alla mobilitazione. Decreto sicurezza o no, lo sciopero è ancora il nostro principale strumento di protesta”.