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Una storia lunga tredici anni, nata con la riforma comunitaria del settore bieticolo-saccarifero nel 2006 e non ancora finita. È la crisi del settore dello zucchero, che in Italia ha portato dopo la riforma europea alla chiusura di sedici zuccherifici su diciannove e che ora rischia di mettere a repentaglio anche i pochi presidi produttivi rimasti. La storia del settore, in realtà, è molto più longeva: la trasformazione della barbabietola in zucchero cristallizzato è uno dei processi più importanti e innovativi scoperti a inizio Ottocento. Una vera e propria rivoluzione, che permise a intere comunità di sottrarsi dal ricatto delle grandi potenze colonizzatrici che detenevano il controllo assoluto della canna da zucchero importata dalle colonie oltreoceano.
A inizio del Novecento erano più di mille gli zuccherifici in tutta Europa, nel 1960 solo in Italia c’erano 78 insediamenti industriali e 33 società saccarifere attive. Poi una progressiva e inesorabile dismissione produttiva, culminata con la riforma del 2006 e la fine delle quote zucchero nell’autunno del 2017. L’Italia, di fatto, è il Paese europeo che ha pagato il prezzo più alto, riducendo del 70% la propria quota di produzione e non riuscendo a convertire gli zuccherifici ad altre destinazioni produttive, così come previsto dalla legge 81/2006, con la conseguente perdita più di diecimila posti di lavoro (tra fissi e stagionali) e un bacino bieticolo di centinaia di migliaia di ettari.
Oggi sono tre gli zuccherifici attivi. Due nel bacino emiliano romagnolo e uno in Veneto. Fanno riferimento a due società, Sadam (ex Eridania) e Coprob, quest’ultima storica cooperativa di bieticoltori che aggrega più di cinquemila soci agricoli. Sadam ha deciso già da tempo di riconvertire il proprio stabilimento per la produzione di bioplastiche, una iniziativa figlia anche della recente cessione del marchio Eridania al gruppo francese Cristal Union, mentre Coprob ha recentemente confermato i due stabilimenti anche per la campagna di trasformazione nel 2019. Una scelta importante, fortemente voluta anche dai sindacati di categoria che in questi anni stanno provando a difendere strenuamente i posti di lavoro e la strategicità della filiera bieticolo-saccarifera.
L’Italia, infatti, è il terzo consumatore di zucchero in Europa, con un consumo pari a 1,8 milioni di tonnellate l’anno ma gran parte di questo zucchero non viene consumato né sui banconi dei bar né nelle case degli italiani. Più del 60% è destinato alla trasformazione industriale agroalimentare, costituendo l’ingrediente fondamentale di tutti i prodotti del tanto decantato ed elogiato Made in Italy agroalimentare. In sostanza lo zucchero è l’insostituibile carburante di uno dei comparti industriali più importanti del nostro paese, che ha recentemente superato i 50 miliardi di prodotti esportati all’estero. Abbandonare le circa 300.000 tonnellate attualmente prodotte in Italia, oltre all’ulteriore danno occupazionale, significherebbe costringere tutto il comparto dell’industria di trasformazione alimentare a comprare l’ingrediente fondamentale dai principali competitors, ovvero i francesi e i tedeschi.
Sta proprio qui una delle ragioni della crisi del settore. Dopo la fine delle quote, a fronte anche di un'ingiustificabile indifferenza della Commissione europea, il mercato europeo dello zucchero ha visto un progressivo (e prevedibile) crollo dei prezzi, calato in pochi mesi di circa il 40%, passando da circa 550 euro a tonnellate a scarse 300. Contestualmente le aziende leader sul mercato hanno cominciato una campagna molto aggressiva di sovrapproduzione con evidenti intenti speculativi, che ha portato una sovrabbondanza di offerta di zucchero raffinato sul mercato. La conseguenza? Un ulteriore calo del prezzo dello zucchero e ingenti perdite per le aziende medio piccole, in particolare italiane, spagnole, polacche e dell’area balcanica.
Una vera e propria guerra commerciale fatta di pratiche di concorrenza sleale, finalizzate a rafforzare la posizione di mercato dei grandi gruppi francesi e tedeschi, che si è consumata nell’indifferenza (o forse complicità…) dei governi nazionali e della commissione europea. Ma quando si gioca d’azzardo c’è il rischio di perdere, e infatti in questa vicenda a perdere è l’intera Europa, vittima dei singoli egoismi nazionali. Alla sovrapproduzione dei gruppi francesi e tedeschi hanno risposto con la stessa moneta i produttori indiani, thailandesi e brasiliani, che hanno inondato il mercato mondiale di zucchero bianco a prezzi ancora più bassi di quelli prodotti in Europa, facendo leva sul basso costo del lavoro. Esito? Una crisi dell’intero comparto in Europa che non sta risparmiando nessuno, grandi e piccoli produttori, con migliaia di posti di lavoro a rischio. Sud Zucker, azienda tedesca leader in Europa, ha recentemente annunciato la chiusura di quattro stabilimenti. Saint Louise Sucre, importante e storico gruppo francese ha annunciato una ristrutturazione altrettanto dolorosa.
In sostanza dopo anni di non governo del mercato e di liberismo sfrenato i nodi sono arrivati al pettine. La Commissione europea ha istituito infatti, su richiesta del governo italiano per la seconda volta in tre anni, un gruppo esperti di alto livello che entro la prossima estate dovrà fornire le raccomandazioni necessarie per affrontare la crisi di settore. Una storia simile a quanto successo in altri settori, come ad esempio nel lattiero-caseario. La competizione internazionale, la deregolamentazione del mercato e la svalutazione del lavoro, hanno messo sotto pressione importanti filiere produttive, facendo emergere con chiarezza la necessità di nuovi strumenti di regolazione del mercato. Ormai anche nelle stanze degli eurocrati della commissione questo argomento non è più un tabù.
È chiara l’idea di un sostanziale fallimento di alcune riforme strutturali, come quella dell’organizzazione comune del mercato dello zucchero del 2006. Il sostegno all’ammasso privato, la deroga al principio della libera concorrenza (così come previsto dall’articolo 222 del regolamento) e la possibilità dei singoli paesi di intervenire con finanziamenti diretti a sostegno della filiera senza subire procedure di infrazione dalla Commissione relativamente agli aiuti di Stato (così come si sta discutendo nelle bozze per nuova Pac), sono tutte proposte avanzate da tempo dal sindacato europeo di settore (Effat), su proposta dei sindacati di categoria italiani, a partire dalle proposte elaborate dalla Flai Cgil per la tutela dei presidi produttivi saccariferi e delle relative maestranze.
Ora a chiedere interventi urgenti sono anche le associazioni europee degli industriali e degli agricoltori, che nell'audizione presso il gruppo esperti di alto livello a cui la Flai Cgil ha partecipato lo scorso 19 marzo, alla presenza dei rappresentanti della Commissione e dei 27 Paesi della Ue, hanno lamentato il lassismo della Commissione mentre fino a pochi mesi fa continuavano a sostenere che "ci avrebbe pensato il mercato". Adesso sarà necessario che ci pensino i governi (tra cui anche quello italiano) e la Commissione che sarà istituita dopo le prossime elezioni europee. Toccherà a loro dare una risposta a un quesito che i sindacati pongono da tempo, ovvero: in che modo le istituzioni vogliono provare a salvare la strategicità della produzione saccarifera e i posti di lavoro? Nel frattempo, come Flai, continueremo a mettere in campo tutte le iniziative di lotta necessarie affinché non siano i lavoratori a pagare il prezzo di scelte politiche sbagliate e confuse.
Roberto Iovino e Raffaele Ferrone sono sindacalisti della Flai Cgil nazionale