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Da un lato la crisi economica, ma dall’altro anche le inchieste giudiziarie hanno evidenziato come il modello di welfare lombardo non si distingua dalle politiche di altre aree del paese. Esso ha solo beneficiato di condizioni economiche più favorevoli. Qui, infatti, vivono circa 10 milioni di persone con un reddito annuo medio oltre i 33 mila euro e la maggior parte delle imprese del paese.
La stessa eccellenza, che pure esiste nella sanità lombarda, non è una novità dei governi degli ultimi vent’anni ma è parte della storia economica e sociale di questa regione. Qui la cultura cattolica, ma anche le leghe contadine della Bassa e le società operaie dell’area milanese, si sono da sempre poste il tema del benessere delle popolazioni, intorno e dentro i luoghi di lavoro e quelli del vivere collettivo. Le eccellenze esistevano dapprima e non sono indicatori del buon governo formigoniano. Sono piuttosto attribuibili alla professionalità degli operatori (medici, ma non solo). E la mobilità di pazienti in ingresso, da altre regioni del paese come da oltre confine, è un fenomeno con radici antiche non ascrivibile solo alle politiche regionali. Ecco perché riteniamo utile fare luce e dire verità sul welfare lombardo.
Formigoni ha costruito innanzitutto un sistema di potere. Dapprima separando le strutture organizzative: la sanità dall’assistenza, la medicina del territorio da quella ospedaliera. Poi trasformando le Asl: da organizzazioni di servizi a strumenti decentrati del governo regionale, con funzioni di programmazione, acquisto e controllo delle prestazioni sanitarie, arrivando a esautorare i sindaci dalle prerogative affidate loro dalla legislazione nazionale, mortificandone ruolo e organi di rappresentanza. Infine, l’affermazione ideologica della libertà di scelta dei cittadini ha trasformato il diritto alla salute in bisogno cui cercare risposte nel mercato, che non distingue più tra erogatori pubblici e privati, favorendo la progressiva deresponsabilizzazione dell’istituzione sul progetto di salute e di benessere delle comunità. Al mercato si rivolge chi ha bisogno di assistenza, sanitaria o sociale; il mercato decide le risposte senza mediazione istituzionale. Il mercato ha le sue regole: la concorrenza, il minor costo a vantaggio del maggior profitto, il discrimine del “prodotto” offerto in ragione della maggiore remuneratività (la spesa per le inappropriatezze è alta in Lombardia).
Lo scambio tra Formigoni e i gruppi privati era nel disporre un mercato protetto, spostando posti letto dal pubblico, in cambio della progressiva riduzione dei costi sul bilancio regionale. Si sono tagliati i servizi territoriali e alcuni di questi sono stati impropriamente inclusi nei servizi ospedalieri, come la salute mentale. Si sono tagliati i posti letto e ridotti i budget di accreditamento annuali, costringendo le aziende a rinviare al nuovo anno interventi già programmati, per aver esaurito i volumi contrattati di prestazioni già a ottobre scorso.
Non si esce dalla crisi con nuove politiche di austerità. Queste hanno fatto fallimento in tutti i paesi europei. Anche la Lombardia, che a ragione si misura con le aree più ricche e sviluppate d’Europa, fa i conti con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ancora non abbiamo sommato le crisi aziendali che cominciano a palesarsi nel sistema sanitario e socio-assistenziale.
Sono oltre 500 gli esuberi dichiarati tra San Raffaele e Gruppo Multimedica, 1.500 quelli paventati dai datori di lavoro Aiop, e tante le decine di lavoratori, frammentati in molte aziende, che non fanno notizia. Sono quelli delle case di riposo, solitamente di dimensioni medio-piccole e piccolissime, delle cooperative sociali in appalto per i servizi di pulizia o di ristorazione, per non parlare dell’indotto vero e proprio (lavaggio telerie e bendaggi, trasporti eccetera). Per questo crediamo che serva un nuovo piano del lavoro e che dai servizi di welfare della Lombardia si debba e si possa ripensare un modello di sviluppo e generare nuova e buona occupazione. Per farlo occorre cambiare paradigma. Bisogna vedere il welfare non come un costo ma come una formidabile occasione per ripensare il paese. Occorre uscire dalla logica del welfare come esclusiva erogazione di prestazioni, di interventi per la cura e l’assistenza. È necessario assumere l’obiettivo della produzione di ben-essere, progettare politiche della e per la salute.
La dismissione che ci piace è quella del modello ospedalocentrico, per rafforzare i servizi sul territorio, restituendo alla titolarità di quest’ultimo, ad esempio, la salute mentale, le dipendenze, le politiche sulla crescita demografica, riattivando i servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro e ancor di più nei luoghi di vita. Va ripensata la rete ospedaliera, rendendola più utile e sicura per i cittadini, riducendo le duplicazioni inutili che mettono a rischio la qualità delle prestazioni. Occorre sostituire il modello truffaldino della libertà di scelta con l’idea della salute collettiva e del ben-essere consapevole. I cittadini non siano solo consumatori ma tornino ad essere parte del sistema partecipando alla determinazione del fabbisogno di salute e alla valutazione d’efficacia dei servizi. Ai sindaci si restituisca la titolarità della promozione della salute sul territorio.
Il valore del lavoro è decisivo. Le professionalità vanno coltivate, costantemente curate e non mortificate. Sul lavoro bisogna investire. La Lombardia spende meno della metà di quanto spendono altre regioni europee. Per questo il tema delle risorse è mal posto. Innanzitutto bisogna adeguare la spesa per il welfare del nostro paese agli altri paesi europei. Ma la spesa ora sostenuta non sempre è appropriata. Vanno evitati gli sprechi. In Lombardia una buona mano la stanno dando le inchieste della magistratura che svelano i mille rivoli illegali in cui la spesa sanitaria si è dispersa. Ma occorre ripartire anche dalla moralità e dall’etica della prestazione, perché oggi in Lombardia si rischia di morire di influenza e sopravvivere a interventi di sofisticata microchirurgia. Nello stesso rapporto col privato – una realtà con cui bisogna fare i conti con serietà e senza pregiudizi ideologici – non basta più porsi il tema del controllo (che va migliorato e potenziato). Occorre stabilire con esso un patto chiaro: rispetti le regole definite dal pubblico; esibisca una reale capacità d’impresa impegnando capitali propri, in aggiunta alle risorse pubbliche, in progetti di miglioramento dell’insieme del sistema; si riconoscano a tutti i lavoratori pubblici e privati del sistema stessi diritti e stessi salari a parità di lavoro.
L’obiettivo che abbiamo è di costruire un welfare universalistico e inclusivo. Perché lo sia abbiamo bisogno di non comprimere i diritti ma di riconoscerne di nuovi. Il sistema pubblico che abbiamo conosciuto andava riformato ben prima della crisi, pena la compressione dei diritti di cittadinanza o la riduzione delle platee di accesso ai servizi. Perché non vi è dubbio che una società in continua evoluzione veda naturalmente crescere la domanda sia in quantità sia in qualità, e oggi siamo in un progressivo calo di risorse pubbliche disponibili.
Pensiamo si debba agire allora sul versante dell’acquisizione delle risorse e su quello dell’organizzazione dell’offerta.
Sul primo: una risposta può venire dall’incrocio della contrattazione integrativa aziendale con quella sociale territoriale. Più forte è la prima nel definire quote di partecipazione delle imprese al finanziamento dei servizi di welfare, più forte diventa la seconda nell’organizzare servizi adeguati alle richieste dei lavoratori. Sul secondo: va restituita al valore originario la funzione della sussidiarietà orizzontale. Il privato sociale può giocare un ruolo strategico importante se rivendica non la sostituibilità del governo pubblico ma la forte complementarietà nell’organizzazione di prossimità con le aree non naturalmente intercettate dal servizio pubblico.
*segretario generale della Fp Cgil Lombardia