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Il welfare contrattuale va ripensato complessivamente, rideterminandone gli ambiti, i contenuti, le forme di gestione e di sostegno. Le normative di questi anni hanno avuto da un lato un carattere quasi ideologico e astratto, poco ancorato alle concrete e reali condizioni del lavoro e, dall’altro, un tratto di estemporaneità, senza un coinvolgimento organico delle parti sociali nella sua definizione. In Italia, il welfare contrattuale è sempre esistito, sia nella contrattazione nazionale che in quella decentrata: dalle esperienze più strutturate, come la previdenza complementare, o come le forme mutualistiche, a quella più specifica, come il sistema dei congedi o il trasporto collettivo. Erano misure limitate e poco diffuse, in parte gestite anche al di fuori della negoziazione collettiva.
La normativa introdotta negli ultimi anni ha voluto dare un impulso al welfare contrattuale, in particolare attraverso sgravi fiscali e contributivi. E più in generale ha voluto sostenere la contrattazione collettiva, vincolando a essa i benefici, cercando di riposizionare ed estendere la contrattazione a livello decentrato, aziendale o territoriale, anche rafforzando le misure legate a esperienze di partecipazione organizzativa, fino al sostegno dell’azionariato dei dipendenti. In questo contesto, il legislatore ha anche differenziato l’intensità degli incentivi, favorendo le erogazioni date sotto forma di welfare rispetto ai premi di produttività.
Ma dopo alcuni anni dal suo avvio, cosa ha prodotto questa esperienza? Alcune cose positive, diversi effetti distorsivi, alcuni aspetti che in prospettiva possono preoccupare. A livello nazionale il fatto più rilevante è la diffusione in quasi tutti i settori dei fondi sanitari di categoria, con dei nomenclatori che in molti casi prevedono interventi ricompresi nei Lea, anche se gli interventi più diffusi sono i rimborsi dei ticket sanitari, le spese odontoiatriche e i rimborsi per prestazioni diagnostiche o specialistiche. I contratti nazionali inoltre hanno anche rafforzato la previdenza complementare e in alcuni limitati casi sono state previste forme di adesione ai fondi su base contrattuale.
Per quanto concerne la contrattazione decentrata, essa non ha avuto un sostanziale impulso dalla nuova normativa, che, più che consentirne l’estensione a nuove imprese, ne ha condizionato e orientato i contenuti. Sono infatti ancora attorno al 20% i lavoratori attualmente coinvolti dalla contrattazione integrativa (circa 3 milioni), concentrati nelle imprese più grandi e solide, prevalentemente nel Nord del Paese. Più difficile è fare una valutazione quantitativa, perché il confronto con il periodo precedente è fortemente condizionato dall’evoluzione delle condizioni economiche e produttive degli ultimi 10 anni.
Anche se in misura non prevalente, molti accordi sono stati caratterizzati da piani di welfare aziendale o dalla trasformazione in welfare dei premi di risultato, molto spesso sollecitati dall’impresa e dai diversi promotori che si sono attivati nel proporre i diversi pacchetti di welfare. Del tutto irrilevanti sono state le esperienze di partecipazione organizzativa concordate sulla base delle condizioni previste dalla normativa.
Alla luce dell’esperienza in corso sono diversi gli elementi su cui riflettere. Prima di tutto, quando si parla di welfare contrattuale, è necessario definire a monte qual è il sistema di welfare a cui si pensa e in particolare quali sono le prestazioni universali che vanno comunque garantiti, superando la pericolosa idea che il welfare contrattuale possa supplire a un arretramento irreversibile del welfare state. Quindi è necessario definire le connessioni opportune fra i due sistemi, in una logica sinergica e integrata, evitando sovrapposizioni e onerose dinamiche concorrenziali. In particolare il rischio che si determinino sovrapposizioni in campo sanitario e socio-assistenziale è rilevante. Non definire con precisione i reciproci ambiti e la salvaguardia dell’universalità dei livelli essenziali delle prestazioni fa correre il rischio di ricreare un sistema duale di welfare, su base settoriale o, addirittura, aziendale.
Questo è ancora più pericoloso e inconcepibile se si considera che il lavoro si sta sempre più frammentando e sempre più lavoratori verrebbero esclusi da questo sistema di protezione. A un mercato del lavoro che si scompone non possiamo associare un welfare altrettanto disarticolato senza pregiudicare la tenuta sociale e solidale di una comunità. Per non parlare del rapporto con la popolazione non attiva, primi fra tutti i pensionati.
Per quanto concerne la previdenza integrativa, è necessario garantirne, su base volontaria, l’effettivo accesso a tutti i lavoratori, visto che oggi le adesioni sono pressoché esclusive nei settori più ricchi, nelle imprese più grandi, soprattutto del Nord, tra persone di genere maschile, non giovani, e con un contratto a tempo pieno e indeterminato. Per i fondi sanitari, in relazione al peso e alla complessità del sistema che si è generato, si pone inoltre il problema di definire meglio la governance e un adeguato sistema di vigilanza.
A livello decentrato, andrebbe invece superato l’effetto distorsivo introdotto dal differenziale delle agevolazioni fiscali, che stanno alimentando surrettiziamente comportamenti elusivi e un improprio business attorno ai pacchetti di welfare aziendale. Andrebbero quindi parificati i trattamenti delle prestazioni di welfare e quelli del salario di produttività, affidando alle parti e al lavoratore la piena libertà di scelta, non condizionata da elementi impropri come il dumping fiscale. Come andrebbe superata la decontribuzione che, fra l’altro, contribuisce all’indebolimento del primo pilastro previdenziale, ancora più grave in vigenza di un sistema ormai per tutti a esclusiva o prevalente base contributiva.
Più in generale, un sistema di sostegno alla contrattazione, che comunque ha degli elementi di positività importanti nell’attuale normativa, deve essere meglio connesso al sistema di relazioni industriali che i recenti accordi interconfederali hanno determinato, sostenendo ancor più e meglio i modelli incentrati sulla partecipazione, autonoma e consapevole, delle rappresentanze sindacali e dei lavoratori, alle scelte generali e alla gestione organizzativa delle imprese. In questo caso è necessario superare le ritrosie di molte imprese e gli incentivi pubblici, ancorché da ripensare perché inefficaci, non sono sufficienti se non vi è anche un’incisiva azione politica delle associazioni di rappresentanza.
Vi è infine un livello di iniziativa che invece andrebbe sostenuto con maggiore impegno e convinzione, anche da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. È il rapporto virtuoso che si potrebbe determinare fra la contrattazione decentrata di categoria, aziendale e territoriale, e le politiche di welfare territoriale. Su molti aspetti che attengono ai diritti di cittadinanza, come i servizi all’infanzia, alla non autosufficienza, i trasporti, le politiche di conciliazione, degli orari dei servizi e delle città, il diritto allo studio, sarebbe necessario sviluppare esperienze che mettano in relazione le componenti verticali (imprese, Rsu, categorie) con quelle territoriali (istituzioni locali, confederazioni sindacali e associazioni imprenditoriali, Terzo settore, imprese dei servizi) per determinare un sistema integrato che non solo non veda la contrapposizione tra il welfare contrattuale e quello territoriale, ma al contrario generi possibili sinergie virtuose per tutta la comunità.
Il sempre maggiore sotto-finanziamento del welfare pubblico e la crescita tendenziale del divario fra risorse e bisogni di protezione sociale impongono una riflessione complessiva sul sistema, che porti a un cambiamento delle politiche, nello spirito della centralità del sistema di protezione universale. Il welfare contrattuale può assolvere un ruolo importante in questo contesto, a condizione che si ridefiniscano meglio gli ambiti e le condizioni della sua azione. Il welfare contrattuale rappresenta anche una componente del sistema generale di contrattazione, a condizione che rientri in un sistema di partecipazione matura e paritaria fra impresa e lavoro, e che possa corrispondere a effettivi bisogni individuali o collettivi, non è uno strumento per pratiche elusive o per alimentare forme di paternalismo aziendale.
Tutto ciò presuppone un salto di qualità non solo nelle relazioni sindacali, rispetto alle quali i recenti accordi interconfederali, se adeguatamente gestiti, rappresentano un presupposto importante, ma anche nel rapporto istituzionale, sia a livello nazionale che nei territori. Su questo è necessario lavorare, contando anche sull’indispensabile contributo di analisi e di elaborazione che può arrivare dal mondo della ricerca.
Roberto Ghiselli è segretario confederale della Cgil