Chiunque abbia seguito almeno una partita di calcio avrà di certo avuto modo di apprezzare l’abilità dei commentatori nel vivacizzare, con parole, momenti di gioco che magari vivaci non sono. Ecco, per commentare l’aggiornamento dell’Osservatorio sul precariato reso disponibile dall’Inps qualche giorno fa, ci piacerebbe avere un po’ di quell’abilità. Anche i dati diffusi nell’aggiornamento al primo quadrimestre 2016, infatti, confermano le tendenze già evidenziate nei primi mesi dell’anno.

In primo luogo, si legge nella sintesi dell’Inps, si conferma che con la fine degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato è terminata anche la crescita delle forme più stabili di occupazione che aveva caratterizzato il 2015. Si tratta di un dato da non sottovalutare, visto che è in nome di quella crescita che, con il Jobs Act del governo Renzi, il contratto a tempo indeterminato ha perso una parte significativa delle sue caratteristiche tradizionali. Il secondo elemento riguarda invece il lavoro accessorio, che nel primo quadrimestre del 2016 continua la sua corsa con incrementi a due cifre sull’anno precedente (più 43,1%).

I dati dell’Inps consolidano, insomma, l’impressione che se è vero che in Italia è il lavoro a mancare, lo è anche la possibilità di trarre dal lavoro un riconoscimento dignitoso. E se questo vale per l’Italia nel suo complesso, ciò è tanto più vero per le regioni meridionali, dove – sempre con riferimento al mese di aprile – il lavoro accessorio cresce con variazioni che vanno dalle massime di Puglia e Sicilia, rispettivamente più 14,5% e più 13,8%, alle minime di Abruzzo e Molise, più 1,3% e più 1,5%.



Le variazioni sono negative nella gran parte delle regioni settentrionali, Valle d’Aosta e Liguria in testa, o minimamente positive nelle altre. Come è stato più volte rilevato negli scorsi aggiornamenti, per quanto riguarda le regioni più significative per il ricorso al lavoro accessorio, le variazioni sono minime. Si tratta di Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Tra queste, solo il Piemonte varia negativamente (meno 1,6%), mentre è l’Emilia Romagna a crescere di più. Il dato è reso ancor più significativo dal fatto che grazie a quel più 4,4%, la regione guadagna il secondo posto per numero di voucher venduti su scala nazionale.

Si tratta di qualche migliaio di buoni, certo, niente più di qualche blocchetto (virtuale), ma abbastanza per accrescere l’interesse nei confronti del primo tentativo di approfondimento voluto dall’Ires regionale, una ricerca (“Voucher, il lavoro accessorio in Italia e in Emilia Romagna”) i cui risultati saranno presentati a Bologna il 7 luglio assieme ai rappresentati delle categorie maggiormente interessate dal fenomeno. Svolto tra i mesi di gennaio e maggio 2016, lo studio ha un duplice intento. Da un lato, mira alla sistematizzazione del quadro frammentato delle informazioni statistiche che hanno acceso il dibattito pubblico sulla questione dei voucher e, dall’altro, esplora l’impatto dello strumento sulla vita lavorativa dei voucherizzati, così come si è definita una delle ragazze che hanno partecipato alla ricerca. Le interviste sono state raccolte quasi esclusivamente nella provincia di Bologna: nonostante ciò, gli elementi che emergono e che costituiscono i punti di maggiore interesse, ci paiono offrire spunti rilevanti ben oltre la limitazione territoriale del nostro intervento.

L'INIZIATIVA DEL 7 LUGLIO

Mentre i mezzi di informazione e il governo si concentrano sull’utilizzo illecito dello strumento che ne tradirebbe l’intento originario, quello che va configurandosi è un processo ben più ampio, di ridefinizione del confine tra lavoro formale e informale. Intendendo con ciò, in prima approssimazione, tra il lavoro normato nell’ambito della legislazione e della contrattazione nazionale e tutto ciò al di fuori di esso. E se il contratto di lavoro formalizza una relazione di subordinazione definendo allo stesso tempo i limiti di azione del potere direttivo, il suo superamento ne svela le prerogative in fatto di diseguaglianza.

Per questo, nonostante l’accessorietà produca una parificazione semantica tra le parti del rapporto di lavoro, la traduzione empirica ci restituisce, al contrario, l’esasperazione della distanza tra chi vende il proprio lavoro e chi, acquistandolo, ne dispone il riconoscimento. Ma non si tratta solo dell’estensione del potere direttivo che la subordinazione nuda comporta. Il contratto di lavoro, per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, oltre a informare i contenuti della relazione lavorativa, produce significati di più ampio raggio che investono il mondo che esiste oltre quella.

Il suo superamento moltiplica, perciò, quel senso di senso di opacità che, nelle parole di Maëlezig Bigi e di altre studiosi, “contribuisce al disturbo degli orizzonti” (il riferimento è al lavoro di Pierre Velz “Le nouveau monde industriel”, edito nel 2008 da Gallimard), facendo sì che “ogni proiezione sul futuro più o meno prossimo sia segnata da una grande incertezza. I lavoratori vivono uno squilibrio tra ciò che possono pretendere e ciò che è loro offerto” (la frase è tratta dall’ultimo lavoro di M. Bigi, O. Cousin, D. Méda, L. Sibaud e M. Wieviorka, “Travailler au XXIe siècle: des salariés en quête de reconnaissance, edito nel 2015 da Laffont).

Il voucher, insomma, anche quando usato secondo la norma, permette un’emersione solo contabile del lavoro, lasciando sul terreno dell’informalità questioni cruciali come la definizione del contenuto del rapporto di lavoro, ma anche il riconoscimento sociale della relazione lavorativa. Se di superamento del lavoro salariato si può parlare, quindi, ci pare che il voucher si configuri come un’alternativa particolarmente vantaggiosa solo per le imprese.

Ciò sia grazie all’estrema duttilità che lo rende in grado di legittimare ogni tipologia di prestazione lavorativa, sia perché per la prima volta nel nostro ordinamento è consentito ridurre il rapporto di lavoro alla sola retribuzione delle ore effettivamente lavorate. Il sistema dei voucher sembra dunque costituire l’ultimo tassello di una galassia precaria in costante espansione negli ultimi 20 anni, moltiplicando la diffusione di un’idea di lavoro povero, tanto economicamente quanto  dei diritti fondamentali, espandendo tale impoverimento nella vita dei lavoratori, amplificando le vulnerabilità sociali e moltiplicando le disuguaglianze.