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Ci vorrà sicuramente molto tempo per dare una risposta plausibile a tutti i quesiti aperti dallo scandalo Volkswagen, che ha rivelato al mondo la manipolazione delle emissioni delle auto con il motore diesel EA 189 EU5 e con una cilindrata di 1,2, 1,6 e 2,0. E non tanto per quanto riguarda il profilo tecnico dell’affare. Come funziona il meccanismo fraudolento impostato da un software che entra in funzione solo in occasione dei controlli dei gas di scarico in laboratorio (in particolare l’ossido di azoto), abbassandone considerevolmente i valori, è stato già chiarito.
Come pure è ormai palese perché tale sistema manipolativo sia stato installato, già a partire dal 2008, in milioni di vetture in tutto il mondo (11 per la precisione), di cui 8 nell’Unione europea e 2,8 in Germania. Se si fossero rispettati i limiti dei valori dei gas di scarico imposti dalla normativa, i costi di produzione sarebbero stati eccessivi rispetto a quelli della concorrenza, è stato detto. Chi invece abbia dato il via definitivo all’istallazione non è ancora stato accertato del tutto: molti sospetti ricadrebbero su Ulrich Hackenberg, allora e da molti anni capo del reparto Sviluppo (attualmente è nella direzione dell’Audi). Alcuni presunti responsabili sono stati temporaneamente sospesi dal lavoro. Ma potrebbero essere i classici capri espiatori.
E comunque è difficile pensare che l’intera operazione sia stata opera solo di un paio di tecnici “criminali”. Dovevano essere in molti a conoscenza della cosa, compresi i vertici dell’azienda. Che però – visto che la soluzione adottata sembrava aver avuto successo – hanno probabilmente chiuso un occhio, fingendo di non sapere nulla. Sarà difficile dimostrare il contrario. La conseguenza a questo punto è che a essere messa in dubbio è la sopravvivenza stessa del gruppo. Lo ha ammesso lo stesso presidente del consiglio di sorveglianza testé nominato, sia pure provvisoriamente (c’è bisogno dell’approvazione dell’Assemblea generale), Hans Dieter Pötsch, che finora aveva avuto il ruolo di responsabile delle finanze di Volkswagen.
A conclusione del suo intervento all’assemblea del gruppo, Pötsch si è dichiarato ottimista, purché – ha aggiunto – “tutti facciano la loro parte”. A proposito di Pötsch, molti analisti hanno osservato che egli non rappresenta affatto la scelta ideale per far ripartire VW con uno spirito nuovo, essendo un rappresentante del vecchio sistema e intimo di Martin Winterkorn, l’ad obbligato a dimettersi pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo e successivamente costretto a rinunciare a tutte le cariche che aveva nelle varie holding collegate alla VW. Certo, Pötsch ha una perfetta conoscenza dei 12 marchi del gruppo, ma è lui uno dei responsabili della scelta di informare con colpevole ritardo l’opinione pubblica (il che è illegale), e quindi gli azionisti di VW, su quali erano le accuse mosse dall’agenzia americana Epa alla casa automobilistica tedesca.
Già a inizio settembre i vertici dell’azienda erano a conoscenza della faccenda, ma hanno riconosciuto la vera ampiezza dello scandalo solo tre settimane dopo. La ritardata confessione provocherà richieste di risarcimenti per vari miliardi di dollari – si parla di 18 – da parte degli investitori. Ma sono da mettere in conto pure i costi per il ritiro delle auto, e molto altro ancora. Ovviamente, al di là dei vertici aziendali, esistono altri responsabili dello scandalo. Non ultimo il governo, il quale ha quasi sempre agito secondo il motto: sta male l’industria automobilistica, sta male la Germania. Il che significa ignorare certe realtà, impedire l’applicazione di regole troppo severe per calcolo, opportunismo, amicizia. Un po’ come avviene a Bruxelles e in molte altre parti del mondo.
E che dire della responsabilità degli altri membri della presidenza del Consiglio di sorveglianza, di cui facevano parte Bernd Osterloh, da 10 anni presidente del Consiglio di fabbrica e aspirante (già da maggio) capo del personale, e il presidente ad interim Berthold Huber (il cui incarico si è concluso lo scorso 8 ottobre con la nomina di Pötsch), ex segretario del sindacato metalmeccanico IG Metall? È una circostanza piuttosto insolita quella di avere un sindacalista a capo del Consiglio di sorveglianza – pur nel quadro della Mitbestimmung tedesca, il sistema di codeterminazione che caratterizza le relazioni industriali in Germania –, circostanza dovuta alle dimissioni di Ferdinand Piëch di qualche mese fa. Anche per loro ci si chiede quanto sapessero della manipolazione. Osterloh nega e addossa l’intera responsabilità al management.
Assieme al Consiglio di fabbrica anche il sindacato metalmeccanico ha messo le mani avanti. “Ciò che viene montato in un’auto sfugge alla Mitbestimmung sindacale”, ha tenuto a precisare Detlef Wetzel, segretario generale dell’IG Metall. Per lui non sono certo le lavoratrici e i lavoratori dell’azienda a essere responsabili dell’illecito, e di certo non dovranno sopportarne le conseguenze. Non solo. Il sindacato vede un ulteriore pericolo nel fatto che lo scandalo VW possa gettare discredito sul diesel come tecnologia, mettendo a repentaglio 20.000 posti di lavoro impiegati nella produzione di componenti per motori alimentati a gasolio.
Alla Volkswagen il Consiglio di sorveglianza comprende 20 membri eletti secondo la normativa della legge sulla Mitbestimmung, che riguarda le aziende con più di 2.000 addetti. Il consiglio, che ha il compito di controllare la gestione aziendale, di autorizzare importanti procedure dell’impresa e di nominare l’ad, è costituito per metà da rappresentanti della proprietà, due dei quali sono rappresentanti del Land della Bassa Sassonia (proprietario del 20,5 per cento delle azioni) e, per l’altra metà, da delegati dei lavoratori (sette per gli addetti e tre rappresentanti sindacali).
L’idea della Mitbestimmung si fonda sulla collaborazione fra le parti sociali entro un quadro definito che presuppone la salvaguardia degli interessi reciproci. Di fatto, la sua applicazione ha portato (finora e in linea generale) benefici all’intero sistema. Basti ricordare i programmi del capo del personale Peter Hartz all’inizio degli anni novanta, con la settimana di 4 giorni senza conguaglio salariale, oppure lo scambio sicurezza del posto di lavoro contro riduzione salariale, all’inizio della crisi economica. Insomma, tutte le misure concertate tra direzione della fabbrica e sindacato che hanno consentito alla VW e all’intera Germania di ottenere una serie di vantaggi: garantire il livello di occupazione, conservare la pace sociale, mantenere le posizioni di forza del paese e dell’industria automobilistica nel mercato globale, consolidare il potere d’acquisto della forza lavoro, senza peraltro escludere (del tutto) le nuove generazioni dai benefici di questo sistema.
Benefici troppo importanti per potervi rinunciare a cuor leggero? Ma soprattutto, è immaginabile un salvataggio di Stato per evitare la bancarotta di un’azienda che rappresenta il fiore all’occhiello dell’industria tedesca e che è troppo grande, troppo importante, perché si possa solo pensare all’ipotesi di un fallimento (basti dire che un occupato su 20 in Germania dipende direttamente o indirettamente dall’industria automobilistica)? Beh, in primo luogo non è detto che le cifre di cui si è parlato dovranno essere effettivamente sborsate. Senza contare che tutte le aziende automobilistiche mondiali hanno qualche scheletro nell’armadio: il fatto che le emissioni controllate in laboratorio siano ben diverse dalla realtà su strada è noto a tutti da tempo. Per non dire della capacità di ricatto reciproco sia delle aziende automobilistiche, sia dei paesi produttori: tu mi fai questo sgarbo e allora io ti rendo difficile operare sul mio mercato. Dunque, chi ha il coraggio di attaccare la Volkswagen fino alle estreme conseguenze?
Alla fine, forse, conviene lasciar perdere le ipocrisie e le indignazioni fini a se stesse, guardando alla vicenda da un altro punto di vista: quello della razionalità aziendale inserita nella logica capitalistica. Del resto, a suggerire questo cambiamento di prospettiva sono i sociologi dell’organizzazione aziendale, che non paiono affatto sorpresi dallo scandalo VW. Un caso di “utile illegalità” che fa risparmiare soldi (se non viene scoperto), lo ha definito la Zeit del 4 ottobre scorso. Nulla però esclude – anzi, sarebbe grave se non succedesse, al netto delle responsabilità dei singoli e armandosi di un bel po’ di ottimismo – che questa vicenda porti a una maggiore trasparenza dei produttori, a un miglioramento della qualità dei prodotti, a una maggiore efficienza dei controlli, a una concorrenza più sana e, non ultima, a una maggiore consapevolezza dell’utente finale, l’automobilista.