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Maria Teresa Spagnoletti, ora in pensione, è stata giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma, incrociando per decenni nelle aule di giustizia le vite di ragazzi e ragazze spesso invisibili ai nostri occhi, di cui non conosciamo nulla, se non qualche riga di giornale in fondo alla cronaca, prima di sparire in pochi attimi e per sempre dalla memoria di ciascuno di noi.
In questo libro per i “Materiali” dell’editore Ediesse, dal titolo Il mio territorio finisce qui. Vite di minori tra il reato e la pena (pp. 112, €13), la sua esperienza di magistrato viene trasferita nella pagina senza cedere alla retorica, né a una morale fine a se stessa, bensì attraverso una scrittura che restituisce le storie di adolescenti alle prese con esistenze complicate che però nel tempo possono evolversi positivamente, quando le istituzioni riescono a svolgere anche un ruolo di recupero e sostegno, offrendo alternative valide e concrete al concetto di detenzione inteso non soltanto quale sinonimo di punizione, data l’età dei protagonisti. Perché i protagonisti di questo volume sono loro, sono i volti sconosciuti di venti persone dalla provenienza più varia, le cui vicende vengono suddivise in quattro gruppi distinti: le misure cautelari, la messa alla prova, l’esecuzione della pena tra carcere e misure alternative, le misure di sicurezza.
Dopo le brevi ma incisive prefazioni di Luigi Berlinguer e Don Gino Rigoldi, e un’intervista rilasciata dalla stessa autrice all’avvocato Anna Di Loreto, troviamo ad esempio il racconto di Admir che, arrivato in Italia a tre anni dalla Macedonia, inizia una lunga serie di collocamenti in strutture civili per minori sino a quando, nel 2007, torna nella terra natale alla ricerca della mamma, che però non riesce a trovare. Rientrato nel nostro Paese, e divenuto maggiorenne, bussa di nuovo, e con forza, alla porta dell’Istituto Penale per Minorenni in cerca di accoglienza, perché “questa è casa mia”.
Arrestato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, Admir comincia a entrare e uscire dal carcere per adulti, dove costruisce con gli operatori lo stesso tipo di rapporto che, da minorenne, aveva rappresentato l’intero tessuto esistenziale precedente. Uscito definitivamente nel 2016, come riferisce l’assistente sociale che lo ha seguito in questo tortuoso percorso, il carcere ha rappresentato per Admir l’unico contesto nel quale è riuscito a vivere, proteggendolo da se stesso, dalla sua solitudine, e da quanto fuori, a partire dall’abbandono paterno, non poteva essergli d’aiuto. Un caso paradossale quello descritto, accanto al quale nel libro se ne aggiungono altri, ognuno con la propria specificità, e in ognuno dei quali entrano in gioco altre figure e diverse possibilità di soluzione dall’esito non necessariamente scontato, anzi a volte sorprendente e a lieto fine.
Se può ritrovarsi un elemento comune in tutte queste storie, è certamente la componente umana, che emerge non soltanto dalla figura di Maria Teresa Spagnoletti, “severa ma giusta”, come la definiscono i “suoi “ ragazzi, ma di molti (non tutti) che lavorano ogni giorno in un settore all’interno del quale le sfumature sono talmente tante, e spesso così impercettibili, da richiedere una sensibilità nei confronti dell’altro che nella vorticosa società autoreferenziale di oggi tendiamo sempre più a perdere.
In appendice al volume, alcune lettere delle ragazze e dei ragazzi al giudice Spagnoletti, che dedicano particolare attenzione alla notizia del suo pensionamento, quasi venisse a mancare un punto di riferimento, una guida riconosciuta dal punto di vista non solo istituzionale ma familiare; quelle famiglie che per chi quelle lettere le scrive spesso non sono mai esistite o, se ci sono state, hanno soltanto peggiorato condizioni di vita già da loro compromesse.
Ulteriore testimonianza di un mondo, il mondo dei minori tra il reato e la pena, per molti versi, e per molti di noi, ancora tutto da scoprire.