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“Il populismo è una risposta collettiva, pubblica e in un certo senso anche 'pubblicitaria', ai partito-cartello che vivono solo di leaderismo verticale. Riesce a organizzare una grande massa di persone intorno a parole d'ordine carismatiche e mette insieme tante anime diverse su un modello di destra come di sinistra. Là dove non c’è più il partito di classe, arriva quello populista. Nella frattura tra la democrazia elitaria da una parte, e i movimenti di questo genere dall'altra, sta prendendo vita anche una terza forma, il cosiddetto populismo della tecnocrazia, vedi Macron. Inquietante anch'esso, perché presume un' imparzialità che nella realtà non c’è”. È il ragionamento di Nadia Urbinati, politologa, docente di Scienze politiche alla Columbia University in un confronto a due con il segretario generale della Cgil Susanna Camusso.
Al centro della discussione (teatro il “Revolution Camp” di Montalto di Castro, qui il podcast su RadioArticolo1), il tema della rappresentanza e della partecipazione. “La democrazia – ricorda la docente ai giovani in platea– non è fatta soltanto dalla parte formale, quella cioè legittimata dal voto delle urne. C'è anche un'altra gamba altrettanto importante, ovvero la partecipazione delle opinioni, il sentirsi parte di uno stesso progetto. Ma questo secondo aspetto non si misura con i voti: è percepibile attraverso forme come le contestazioni, le raccolte di firme o le petizioni, il cui aumento negli ultimi tempi rispecchia senza dubbio un allontanamento dalla sfera istituzionale. Il problema è che i politici continuano a legittimarsi solo con la parte 'contabile', ignorando completamente la partecipazione informale”.
In questo scenario i corpi intermedi possono ritrovare il loro ruolo. Già oggi la rappresentanza sociale è più forte di quella politica se guardiamo i dati di affluenza alle elezioni: crollati per le amministrative, ancora molto alti – in media tra il 70 e l’80 per cento – nei luoghi di lavoro. Ma non è questione di numeri. “La politica – osserva Susanna Camusso – vive da anni nella convinzione di essere totalmente autosufficiente rispetto alla rappresentanza sociale come dimostrano i casi del Jobs Act e della Buona scuola approvati nonostante le proteste. Non si ascolta la rappresentanza, indipendentemente dal grado di consenso o di dissenso che i soggetti hanno”.
Da qui la volontà della confederazione di corso d'Italia d'intraprendere un lungo cammino attraverso la Carta dei diritti, il Piano del lavoro e i referendum: “Ci siamo trovati in un contesto politico nel quale le opinioni organizzate, fossero del mondo del lavoro, delle associazioni o delle imprese, non erano più un punto di interlocuzione. La legge d’iniziativa popolare e i referendum sono nati da qui, confortati poi dalla lunga campagna delle assemblee, più di 40 mila, in cui abbiamo incontrato qualche milione di lavoratori e di pensionati che ci hanno chiesto di non delegare ad altri queste richieste. L’altro elemento confortante è il grande sostegno dei cittadini: sui 4 milioni e passa di firme raccolte, la maggior parte sono giunte da non iscritti alla Cgil, vuol dire che abbiamo acceso un faro nella crisi del lavoro e della rappresentanza”. Insomma, è evidente che in questo clima non bastano più le forme normali e tradizionali dell'agire sindacale per ottenere un'interlocuzione, ma bisogna provare a mettere in campo anche cose nuove.
“La Cgil andrà avanti, stiamo lavorando sui ricorsi per il referendum, agiremo in Corte europea rispetto ai licenziamenti individuali e collettivi. Ma vogliamo anche rafforzare gli strumenti tradizionali, cioè il legame diretto con i luoghi di lavoro, con il grande problema di come organizzare la massa di persone escluse”. La chiave è forse nella contrattazione, una risposta collettiva che rompe l’idea secondo cui il rapporto può svolgersi tra il singolo e il suo datore di lavoro. “In effetti – riprende Urbinati – in un mondo in cui prevale l'individualismo, tutto ciò che è organizzato e collettivo sembra perdere valore, ma solo l’associazione oggi può salvare la democrazia, divenuta impotente proprio a causa della crisi di partecipazione. I partiti sono in declino, vincono le individualità. Ma non dobbiamo dimenticare l'importanza della partecipazione, che nella radice stessa della parola implica l'essere di parte, cioè schierati, una cosa oggi vista in maniera negativa”.
Qui sta il senso della Carta dei diritti, un'alternativa alle politiche economiche per ricostruire il rapporto con le persone, se necessario anche con il conflitto che può far avanzare la democrazia. “Se oggi siamo tornati al punto che il figlio di un operaio non riesce ad andare all’università – conclude Camusso –, la nostra battaglia contro le disuguaglianze non può che essere rilanciata. Costruire la rappresentanza è fondamentale per dare forza alla voce collettiva, è la prima condizione per contrastare la frantumazione del lavoro. Non è vero che non c’è un alternativa alle politiche economiche degli ultimi anni, non è vero che la finanza può fare quello che vuole, nulla è ineluttabile. La rappresentanza collettiva serve a questo”.