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Lungo le strade che portano all’acciaieria più grande d’Europa i bar si riempiono degli operai che vanno a montare o di quelli che smontano, un fiume carsico silenzioso che vive sulla propria pelle un conflitto il cui scenario cambia in continuazione rendendo difficile non solo immaginare le prospettive, ma anche vivere la quotidianità del lavoro. I lavoratori dell’ex Ilva sono migliaia e si spostano da tutta la provincia e anche da fuori, la loro presenza alimenta una buona parte dell’economia del territorio, anche quella che non è direttamente legata all’acciaio, ma è quasi data per scontata. Solo loro, però, portano sulle spalle il peso reale dell’incertezza, e ogni parola pubblica pronunciata sull’argomento è una piccola crepa nell’equilibrio precario della loro esistenza.
“Ogni giorno devo trovare le motivazioni anche per gli operai del reparto – ci racconta Martino Santoro, impiegato del magazzino –. Bisogna fare un po’ gli psicologi, non è facile”. Il senso di precarietà si manifesta con la mancanza di pezzi di ricambio, di viti, bulloni: “Ogni giorno dobbiamo trovare il modo di arrangiarci per alimentare la linea di produzione e le otto ore lavorative. I mezzi che usiamo, i carrelli, sono a noleggio, due sono fermi”. Le cose vanno così da quando c’è l’amministrazione straordinaria: “Lo Stato non ha mosso un chiodo”, continua Santoro, “la gente è esasperata e questa esasperazione aumenta la voglia di accettare gli incentivi ad andare via”. “Una volta – ricorda Santoro – si diceva che l’operaio Ilva va in fabbrica a riposarsi. La colpa è nostra, anche, che abbiamo permesso che questo avvenisse. In tutti i posti di lavoro ci sono quelli che hanno voglia di lavorare e chi invece no. Io ho voglia di fare, di darmi da fare, perché penso che il nostro lavoro abbia ancora senso. Ma se non ho i mezzi per lavorare al meglio, che faccio? È la situazione in cui mi ritrovo”.
“Incertezza e malcontento. Le cose non procedono come da premesse pre e post elettorali”, osserva Giuseppe Leone, delegato Filctem Cgil, tecnico di produzione dal 2003 della centrale elettrica che serve l’acciaieria: “Nessuna promessa riguardante manutenzione e innovazione è stata mantenuta e ora arriviamo pure all’assurdo che ai lavoratori viene negata la bottiglietta d’acqua, perché i fornitori non danno più nulla a credito, ma vogliono essere pagati subito”.
Ma non basta: “Mancano le forniture delle cose minute per fare ripristini e messa in sicurezza – prosegue Leone –, perché i fornitori non si fidano più”. L’acciaieria viene alimentata da sei turbine, le quali producono, ognuna di loro, 160 megawattore a regime. Fino al 2012 si producevano 1000 megawattore giornaliere, ora invece meno della metà. Delle sei turbine, o gruppi, come vengono chiamati nella centrale elettrica, due sono ferme da tempo e vengono letteralmente cannibalizzate per i pezzi di ricambio: “I due gruppi sono fermi dal 2015, perché non si riusciva a fare manutenzione, e la si appaltava all’esterno. La contrazione del mercato dell’acciaio impatta anche da noi, perché producendo di meno serve meno energia elettrica”. Ma quello che inquieta è l’impatto sulla sicurezza: “Cerchiamo di passare le otto ore in sicurezza – osserva Leone –, sperando che vada tutto bene”. Chiediamo se dipende anche dal clima della discussione pubblica che, accusando apertamente l’acciaieria di uccidere letteralmente le persone, indirettamente può produrre anche un senso di responsabilità anche per chi ci lavora, creando un corto circuito terribile: “Qui da noi non vengono fatti investimenti almeno dal 2008 e il lavoratore, che fa il suo dovere giornalmente, e non altro, è parte di questo investimento. C’è un accanimento che non condivido. Ma noi non ci sentiamo né in colpa, né ci vergogniamo del lavoro che facciamo perché la responsabilità è di chi conduce lo stabilimento e non dei lavoratori”.
“Molti hanno una cattiva opinione su di noi, o per ignoranza o perché sono imboccati da chi diffonde certe idee – lamenta Michele Stanziale, un altro lavoratore della centrale energetica dal 2003 –. Prendono per oro colato le informazioni che circolano su Facebook, ma molto spesso non sanno nemmeno che caspita di lavoro facciamo”. I social, per loro natura, tagliano con l’accetta le sfumature e riducono la complessità a una vicenda da tifo da stadio, con due curve contrapposte. C’è chi si lascia trascinare dai capipopolo, non sempre mossi da princìpi trasparenti. Basti pensare che l’acciaieria alimenta le campagne elettorali da sempre, anche semplicemente dal punto di vista narrativo. Ma nella reductio a unum del discorso pubblico da social network, i molteplici livelli della complessità si fondono in un unico grande pasticcio, spingendo sullo sfondo sfocato il lavoro.
“Se dal mio monoblocco per un guasto imprevedibile produco cinque minuti di fumo nero, immediatamente mi trovo le foto su Facebook, o sui vari siti e blog, come se stessimo appestando l’aria da chissà quanto tempo – continua Stanziale –, quando in realtà sono solo pochi minuti. È vero, in quel momento sto inquinando, ma spesso anche per le emissioni siamo ampiamente nei margini. Solo che l’impianto per un momento ha funzionato male. Come quando in auto, per un cambio sbagliato, si vede lo sbuffo di smog. Ma nessuno punta il dito contro l’automobilista assassino. Invece noi siamo additati come i responsabili dell’inquinamento, anche se facciamo il nostro lavoro”. Anche se ci sono riduzioni delle manutenzioni, come già detto, i lavoratori si industriano per risolvere i problemi, ma “ci sono persone che è come se avessero la benda sugli occhi”. Il lavoratore racconta: “Qualche giorno fa un collega ha condiviso sul proprio profilo un post vecchio, che ha ricevuto molti like, ma nessuno si è reso conto che era datato, con dati vecchi e superati. È quello contro cui combattiamo ogni giorno, al di là dei giochi di potere che si fanno ai piani alti”. In centrale, però, sulla sicurezza non si scherza: “Anche se sono diminuiti i soldi e si risparmia su tutto, per noi la sicurezza è il primo pensiero, perché veniamo da un’azienda che l’ha sempre messa al primo posto. Eravamo il fiore all’occhiello dell’Ilva e lo siamo tuttora, ma, venendo meno le manutenzioni, dobbiamo metterci più del nostro”, spiega con un certo orgoglio Stanziale.
I più critici però non vogliono comparire col loro nome: “Sai che succede, no? Le ritorsioni…”, ammette un operaio addetto alle spedizioni. Di che tipo non si sa, ma secondo il loro racconto possono accadere anche se si appartiene a un sindacato piuttosto che a un altro. Stati d’animo e informazioni si nutrono a vicenda, la testimonianza di malcontento non sfocia in una richiesta di stare a casa senza lavorare, ma che si mantenga fede alle promesse fatte, investimenti e sicurezza, il miglioramento delle condizioni di lavoro. Le informazioni passano nelle chat, sui social network. I comunicati sindacali sono precisi, ma sono più efficaci i memi, le sintesi grafiche che colpiscono emotivamente, o i video. WhatsApp è l’assemblea permanente, e per ottenere l’attenzione sono necessari contenuti semplici, polarizzanti. La vulgata che circola dice che “la verità è che Conte si è fatto sottomettere da un’azienda straniera, che ha preso l’Ilva solo per il pacchetto clienti. Loro dicono che ci sono gli esuberi, ma hanno intenzione solo di affidare il lavoro agli esterni, come già stanno facendo al porto”, continua il lavoratore.
L’incertezza lavorativa si sostanzia nella quotidianità, alimentando tensioni e malumori. Un ingegnere addetto alla gestione dei controlli, che preferisce restare anonimo, dopo qualche mese di cassa integrazione ha deciso di andare via, dopo dieci anni in acciaieria: “Non voglio più avere a che fare con i miei ex colleghi”, ci racconta, “la situazione si era fatta invivibile e c’erano tensioni anche nei rapporti tra un ufficio e l’altro”.
Confusione e mancanza di prospettive, come perdersi nel deserto senza una bussola e una mappa, ma con le spalle appesantite dalla quotidianità. Nella più grande acciaieria d’Europa, circondata da un territorio apparentemente ostile, è il senso di responsabilità dei lavoratori a tenere in marcia gli impianti.