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A Novi di Modena, nella Bassa Padana, la nebbia avvolge ogni cosa. Le case, i capannoni industriali e i cantieri. In pieno gennaio l’umidità è densa, ti entra nelle ossa. Forse per questo c’è davvero poca gente in giro. Per lo più sono operai, con i gilet catarifrangenti e i caschetti colorati che spuntano dalla foschia. Il silenzio è interrotto di tanto in tanto dal fracasso dei martelli pneumatici. Siamo a 3 km da Mantova, a 2 km da Rolo. Novi è uno dei paesotti che ha subìto più danni dal terremoto che nel maggio 2012 scosse l’intera Emilia. Il centro storico era letteralmente raso al suolo, c’erano calcinacci ovunque, le macchine non potevano entrare. Oggi, 7 anni e mezzo dopo, Rodolfo Ferraro, giovane sindacalista della Fillea di Modena, mostra orgoglioso i risultati della ricostruzione. “Il 90% degli edifici è stato ripristinato a tempo di record – dice senza frenare un forte accento calabrese, mentre indica i palazzi coperti dalle impalcature –. Le scuole e gli uffici pubblici sono già finiti. Mancano pochissimi edifici civili e qualche chiesa”. Intorno, palazzine di due piani nuove di zecca e tinteggiate di fresco. Gli stipiti color pastello sono quasi tutti chiusi, al piano terra le serrande dei negozi restano sbarrate, i cartelli “affittasi” o “vendesi” fanno bella mostra di sé. “I centri storici in tutta la zona sono perfetti ora, ma la gente non c’è più. Se n’è andata via allora e non è ancora tornata – conferma Ferraro –. Bisognerà trovare il modo per riportarla qui”.
MIRACOLO IN EMILIA
Il sisma, in effetti, oltre a fare 28 morti, 300 feriti e 13,2 miliardi di euro di danni, spinse 45 mila persone lontano dalle loro case. Le scosse colpirono 59 comuni nelle province di Modena, Ferrara, Bologna e Reggio. Numeri enormi, eppure la ricostruzione è stata davvero fulminea. Secondo l’ultimo rapporto fornito dalla Regione, sono stati completati oltre 6.900 edifici, per quasi 15 mila abitazioni. Già da due anni nessuno risiede più nei moduli provvisori, mentre la ricostruzione produttiva parla di 1.980 progetti conclusi, il 57% di quelli approvati. A partire dal 2 gennaio 2019, tra l’altro, lo stato di emergenza è cessato in 29 comuni, quelli più periferici in cui la ricostruzione è terminata. Lo stato di emergenza rimane in altri 30 centri, che formano il cosiddetto “cratere ristretto”. Quello dove siamo adesso. Poco più in là, a Mirandola, il paese simbolo del terremoto, la cattedrale è stata riedificata in soli due anni. A Fossoli di Carpi, invece, c’è un palazzo di sette piani che è stato buttato giù e ricostruito in otto mesi dalla Cmb, una delle più grandi cooperative della zona. Giovanni Freda fa il capocantiere, è originario di Avellino e ha trent’anni di esperienza sulle spalle. Anche lui non riesce a trattenere un certo orgoglio. “Entro Pasqua sicuramente finiamo tutto”, dice mangiandosi un sorriso.
Novi di Modena (Mo)
Verrebbe da parlare di miracolo. Ma chi in quei cantieri ci ha lavorato o ci lavora ancora preferisce mettere l’accento sulla “laboriosità emiliana” e su una congiuntura assolutamente favorevole. “Da una parte le istituzioni, che hanno stanziato subito i finanziamenti per far partire i cantieri – racconta Filippo Calandra, segretario generale della Fillea Emilia-Romagna –. Dall’altra, la maturità del sindacato che ha permesso la firma di protocolli specifici per i vari crateri. In questo modo i lavori sono stati eseguiti nel rispetto delle norme contrattuali e legali, tenendo a distanza la criminalità”. E non è poco, nella regione che ha visto recentemente concludersi il processo “Aemilia”, con 118 condanne e l’accertamento dell’esistenza di un’associazione locale legata alla ’Ndrangheta calabrese.
I DANNI DELLA CRISI
Quello del maggio 2012, però, non è stato il solo terremoto che ha scosso l’Emilia-Romagna negli ultimi anni. Sebbene l’economia regionale oggi cresca più che altrove, i picchi raggiunti prima della crisi economica restano ancora lontanissimi. I disoccupati nel 2018 erano 125.000, praticamente il doppio di quelli registrati nel 2008. Negli ultimi 10 anni, da queste parti, solo in edilizia si sono persi ben 43.000 posti di lavoro. Secondo il più recente rapporto dell’Ires, a preoccupare è soprattutto il numero delle ore lavorate, che resta molto basso a causa del ricorso alla cassa integrazione, dell’aumento dei contratti temporanei (18% di tutto il lavoro dipendente) e della forte espansione del part time.
“Dall’inizio della crisi – conferma il segretario generale della Cgil regionale Luigi Giove – abbiamo assistito alla scomparsa delle imprese e del lavoro in questa regione. Soprattutto l’edilizia ha subìto un vero e proprio tracollo”. A pagare il prezzo più alto è stata la cooperazione, fino a qualche tempo fa fiore all’occhiello dell’economia locale. “All'inizio della crisi – continua Filippo Calandra – avevamo moltissime micro-cooperative. Oggi restano solo due grandi aziende con un indotto importante. Il resto semplicemente non c’è più”.
Rodolfo Ferraro, Fillea Modena
SENZA COOPERATIVE
La sede centrale di una di queste aziende è un grosso edificio in stile razionalista a Ravenna. È la storica Cmc, Cooperativa muratori e cementisti. Fondata nel 1901, un secolo dopo occupava ben 10.000 persone in tutto il mondo, 500 solo in città. Oggi invece, racconta Davide Conti, segretario della Fillea locale, “è in concordato, e il numero delle maestranze si è ridimensionato moltissimo”. Quello della Cmc, dice, “è il problema della crisi dei lavori in Italia, dei pagamenti in ritardo della pubblica amministrazione, delle opere che non ci sono, e che non sono quelle necessarie allo sviluppo”. Oltre la porta principale, si apre un enorme capannone di mattoni rossi. Daniele Gambi, operaio ed ex socio della coop ravennate, trattiene a stento le lacrime: “Ora ci sono solo uffici, ma quando ho iniziato io, nel 1978, c’erano più di 500 persone a lavorare qui dentro. C’erano carpentieri, ferraioli, muratori, cementisti. Eravamo una grande famiglia, il rumore era assordante, si parlava solo dialetto. L’appalto e il subappalto, all’epoca, non esistevano neppure”.
Oggi invece la crisi della Cmc investe anche molte aziende dell’indotto. Tra queste c’è la Ged di Cesena, una controllata che fino a qualche tempo fa produceva le travi in acciaio che tengono in piedi decine di edifici, in Italia e all’estero. “Dopo il concordato, quest’azienda è fallita”, racconta col suo accento sardo Giorgio Del Vecchio, tra i primi a ricevere la lettera di licenziamento. “Siamo stati in cassa integrazione per un po’, e siamo rimasti anche tre mesi senza stipendio. Ora mando decine di curriculum in giro, ma è davvero difficile trovare qualcuno che ancora assuma”. In questa stessa area industriale, pochi metri più in là, spuntano gli enormi capannoni bianchi della Trevi, impresa leader nelle palificazioni, perforazioni e nel consolidamento dei terreni. Ci lavora ancora Gabriele Lanedei: “Anche noi siamo in concordato per un debito di circa 800 milioni di euro. Sono almeno 7 anni che si vive nell’incertezza, ma io voglio essere fiducioso nel futuro”.
Videoreportage: Emilia-Romagna, lavori in corso
RISALIRE LA CHINA
In questo territorio, in effetti, seppur lentamente, qualcosa pare muoversi. Secondo i dati forniti da Prometeia nello scorso dicembre, il Pil emiliano-romagnolo nel 2019 è aumentato dello 0,5% rispetto al 2018, ed è proprio il settore delle costruzioni a contribuire maggiormente alla crescita del valore aggiunto regionale, con un +3,9%. Insomma, piano piano, si sta venendo fuori dalla crisi meglio che nelle altre regioni. A contribuire, secondo il sindacato, è stato anche il Patto per il lavoro, firmato nell’aprile 2015 da Regione, istituzioni locali, università, Unioncamere, parti sociali e Forum del terzo settore. L’obiettivo era “una piena e buona occupazione”, attraverso “linee strategiche, azioni e strumenti capaci di generare un nuovo sviluppo per una nuova coesione sociale”. I risultati paiono incoraggianti. “Non è un caso se per 5 anni siamo stati ai vertici delle classifiche per export, Pil, valore aggiunto e occupati – conferma Luigi Giove –. Al punto che insieme a Cisl e Uil abbiamo proposto alle forze politiche che si sono presentate alle prossime elezioni regionali di stipulare un nuovo patto”.
Perché ora, secondo la Fillea e per la Cgil regionale, è davvero arrivato il momento di accelerare definitivamente. Le tre grandi opere fermate in Regione dal precedente governo (il passante di Bologna, la bretella Campogalliano-Sassuolo e la Cispadana) sono state finalmente sbloccate, a breve dovrebbero aprire i primi cantieri. “Ma ci sono moltissime opere piccole o medie che devono ripartire – spiega ancora Filippo Calandra –. E sono cruciali per un’economia regionale che si basa per il 42% sull’esportazione”. Tra queste, l’ampliamento del porto di Ravenna e la manutenzione del tratto regionale della E-45. “Per il porto è finalmente previsto un progetto che aspetta il via libera da anni – racconta Davide Conti sulla gelida banchina che divide il mare dalla zona industriale ravennate –. Prevede la bonifica e l’approfondimento dei fondali e permetterebbe anche alle grandi navi di attraccare qui. Ma lo scalo ha anche bisogno di infrastrutture logistiche. Perché qui arrivano migliaia di container e devono essere smistati velocemente. Invece le strade sono ancora tutte accidentate, e per i treni merci esiste un solo binario”. Un problema serio soprattutto per il settore agroalimentare, che resta determinante per l’intera economia della Romagna.
Filippo Calandra, segretario generale Fillea Emilia-Romagna
La famigerata E-45 invece, da queste parti, non è altro che una lunga trafila di cantieri senza soluzione di continuità. È l’arteria principale che collega il porto con il centro Italia, ed è trafficatissima. Le auto restano imbottigliate, mentre grosse macchine finitrici si susseguono a decine oltre i finestrini. “Ma è un lavoro del tutto inutile – spiega sconsolato Daniele Gambi, che alla fine degli anni 70 era qui a costruire questo tratto –. Il terreno è fangoso, ma continuiamo a ripassare un asfalto che tra due anni salterà di nuovo. È come ‘dare il trucco alla vecchia’, diciamo da queste parti. Se sotto è marcio, non può certo durare. Servirebbe invece riconsolidare il terreno una volta per tutte”.
UN’EDILIZIA NUOVA
La fragilità idrogeologica è un problema per l’intera regione. L’Emilia-Romagna è stata recentemente oggetto di frane e alluvioni che hanno fatto danni enormi. Con quasi 80 mila fenomeni censiti è la seconda regione in Italia per diffusione ed estensione degli smottamenti. Una situazione che secondo l’Ance mette a rischio 307 comuni e oltre 800.000 persone. Anche per questo la manutenzione e la riqualificazione del territorio appaiono oggi la vera sfida dell’edilizia locale. E la rigenerazione urbana ne è un tassello fondamentale. A Rimini, ad esempio, sono già partiti 2 dei 9 cantieri del “Parco del mare”. Il progetto prevede il rifacimento dell’intero lungomare cittadino: 15 chilometri di parcheggi e strade che diverranno verde pubblico, piste ciclabili e pedonali, palestre a cielo aperto. È un grosso investimento sul rilancio turistico dell’intera Riviera. E anche qui il sindacato ha agito d’anticipo, sottoscrivendo da subito un accordo col Comune. “Abbiamo messo al riparo i lavoratori e le aziende dal pericolo dello ‘Sblocca-cantieri’ e dall’aggiudicazione degli appalti secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa – racconta Andrea Pracucci, della Fillea cittadina –. Abbiamo anche ottenuto la responsabilità solidale del comune in caso di mancato pagamento delle aziende e la clausola sociale”.
“Bisogna far partire le opere infrastrutturali che sono indispensabili al funzionamento di questa regione e alla sua crescita – conferma Luigi Giove –, ma soprattutto serve un grande investimento in termini di rigenerazione e tutela del territorio”. “È questa l’edilizia che ci piace, un’edilizia nuova, amica dell’ambiente – conclude Filippo Calandra –. Vogliamo riqualificare la nostra regione, creando lavoro di qualità. Non siamo più il sindacato del cemento.”