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Lo scorso 4 luglio il ministro dell'Interno ha autorizzato la sperimentazione – in queste ore in atto presso le questure di Milano, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi e Genova – della pistola a impulsi elettrici Taser modello X2. Il dissuasore elettrico Taser, utilizzato dalle forze di polizia di circa 107 Stati del mondo, ha la forma di una pistola: chi preme il grilletto ha la facoltà di rilasciare una scarica elettrica continua, che è di circa 30 mila-50 mila volt con bassi amperaggi, fino a cinque secondi. Poiché provoca stordimento, il dissuasore elettrico presenta rischi derivanti dalla caduta involontaria della persona colpita. Non solo. Se il destinatario del Taser è un soggetto cardiopatico o una donna incinta, il rischio è di alterazioni cardiache che possono portare a un arresto cardiocircolatorio.
Secondo Amnesty International, dal 2001 al 2017 in Nord America i morti "taserizzati" sono stati 1.011, di cui il 90 per cento era disarmato al momento di essere colpito dalla scarica elettrica. Sebbene esista un protocollo operativo, come Silp Cgil abbiamo in passato criticato le procedure e l'approccio che ha portato all'odierna sperimentazione, poiché non si è mai voluto interessare della stessa il ministero della Salute, promuovendo un doveroso quanto serio studio e approfondimento sui rischi derivanti dall'utilizzo del Taser, anche in ragione delle ripercussioni a cui potrebbero andare incontro gli operatori che lo utilizzano.
Secondo il nostro parere, esso dovrebbe essere impiegato in situazioni a rischio concreto di messa in pericolo dell’incolumità delle persone (con riferimento sia ai destinatari dell'intervento coercitivo sia agli addetti alla sicurezza). Ma allo stesso tempo sosteniamo che è difficilissimo stabilire se il soggetto che si ha di fronte può rappresentare un pericolo, oppure se l'utilizzo del dispositivo non è stato in coerenza con le funzioni del corpo di polizia, che deve sempre essere rispettoso del sistema di garanzie posto a fondamento del nostro sistema democratico.
Per questo un protocollo operativo può non essere sufficiente, per il semplice motivo che sarà sempre difficile riuscire a fare chiarezza sui comportamenti da adottarsi in situazioni critiche, tipiche di questi interventi. In tal senso, non vorremmo che le responsabilità gravassero sugli operatori (vedasi a seguito di una caduta incontrollata, emorragie o decesso) qualora si dovessero ricercare condotte inadeguate addebitabili alle donne e agli uomini in divisa che sfocino in responsabilità penali verso i singoli.
Anche per questo riteniamo fondamentale il tema della formazione e del costante aggiornamento professionale per il personale. L'uso delle armi e la disciplina sulla legittima difesa sono un presupposto invalicabile e una forma di garanzia per il cittadino, ma anche per l'operatore. Il fatto è che, in simili circostanze, il rischio è stato poco o male calcolato. È vero che l'operatore ha l'obbligo di neutralizzare ogni tipo di comportamento aggressivo, evitando che esso venga portato a conseguenze ulteriori in danno delle persone, ma a oggi una direttiva interna che disciplini l'impiego di dispositivi inabilitanti, mettendo totalmente al riparo entrambi gli interessati, è lungi ancora dall'essere emanata e molte delle conseguenze che si verificheranno nel futuro, non essendo finora state fissate precise condizioni di impiego, verranno inevitabilmente demandante all’autorità giudiziaria, con i rischi, anche involontari o colposi, che potrebbero derivare per gli operatori.
Daniele Tissone è segretario generale del Silp Cgil