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Siamo (di nuovo) in ripresa? La stima preliminare del Pil pubblicata il 30 aprile decreta la fine della recessione (tecnica), contando una crescita congiunturale positiva nel primo trimestre 2019 pari allo 0,2 per cento. Dopo sei mesi di decrescita – non felice – a febbraio la produzione nel settore manifatturiero industriale e nelle costruzioni, così come il fatturato, tornano a registrare modeste variazioni positive. L’Istat spiega la ventata positiva con l’aquilone delle esportazioni, ma sottolinea che consumi e investimenti restano negativi, aumentando peraltro le importazioni proprio per il mancato contributo della domanda interna.
C’è poco da festeggiare. L’Italia esce dalla recessione, ma non dalla stagnazione. Difatti, su base annua, la variazione tendenziale del Pil rileva appena una crescita dello 0,1 per cento, in coerenza con la previsione dello 0,2 del Documento di economia e finanza per l’anno in corso. Non stupisce, dunque, il rimbalzo positivo dell’economia tanto quanto non sorprese la recessione. Appare invece stupefacente che il governo abbia cantato vittoria e il ministro dell’Economia abbia “mostrato soddisfazione” per il recente dato sul Pil. La crescita italiana resta attorno allo zero-virgola e costantemente al di sotto di quella europea, che anche nel primo trimestre di quest’anno conta un ritmo di variazione del Pil pari allo 0,5 per cento. D’altra parte, anche il governo precedente si esaltava per i rimbalzi dell’economia, mentre il nostro Paese perdeva terreno nei confronti di tutte le altre economie avanzate.
Sono anni che l’Italia cresce meno di tutte le altre economie industrializzate, restando al fondo della classifica Ocse ed europea per ritmo di crescita del Pil. Sebbene fossero 14 i trimestri in cui è stata contata una variazione positiva prima di tornare a un segno meno, la crescita congiunturale non ha mai superato il mezzo punto percentuale (apice del quarto trimestre 2016 e del primo trimestre 2017, a ci corrispose una crescita europea oltre il punto), scandendo un progressivo rallentamento sin dalla primavera di due anni fa. Non solo. Dall’inizio della crisi, i trimestri negativi sono stati ben 21. Ecco perché il livello del Pil attuale resta 4,2 punti sotto quello pre-crisi del 2007.
Ancora più incredibile è che il governo abbia stilato un quadro programmatico e un Piano nazionale di riforme senza ambizioni e senza cambiamento. Nel Def la crescita viene programmaticamente affidata al decreto “sblocca cantieri” e al cosiddetto “decreto crescita”, che – a detta dello stesso Mef – dovrebbero generare un aumento aggiuntivo del Pil di un decimale nel 2019 e di due decimali nel 2020. Si tratta – di nuovo – di incentivi e deregolazione. Non a caso, tutte le critiche di Confindustria si sono improvvisamente attenuate di fronte ai sopraccitati decreti. Anche qui, la strategia economica del governo conferma i lineamenti di quelle precedenti: svalutazione competitiva per aumentare le esportazioni e gli investimenti privati. Ne è riprova il quadro macroeconomico programmatico del Def, in cui il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è stabilmente al 2,4% fino al 2022; la crescita dei redditi da lavoro è programmaticamente stabilita al di sotto dell’inflazione (-2,5 punti dal 2019 al 2022) e della produttività nominale (-4 punti in 4 anni), comprimendo la quota di reddito nazionale da destinare al lavoro (rimasta ferma dal 2008 al 2018, esattamente come le retribuzioni reali). Nelle previsioni Mef, il tasso di disoccupazione programmato nel Def dovrà addirittura aumentare nel 2020 all’11,2% e scendere successivamente, fino al 2022 in cui sarà comunque al 10,7%. Anche qui, l’alto tasso di disoccupazione colloca il nostro Paese in fondo alla classifica europea.
La verità è semplice: non si cresce senza lavoro. La scarsa dinamica del valore aggiunto e, di conseguenza, della produttività è dovuta soprattutto ai vuoti di domanda, che si traducono in un livello di disoccupazione ancora al doppio del livello pre-crisi, alla precarizzazione del lavoro e alle crescenti disuguaglianze – economiche, sociali e territoriali –, che hanno comportato salari più bassi e l’ulteriore compressione della quota di Pil destinata al lavoro. Mancano poco meno di un milione di posti di lavoro rispetto al 2007 (in termini di unità a tempo pieno e indeterminato) e più di 2 miliardi e 348 milioni di ore lavorate, input fondamentale del sistema produttivo anche per nuove accumulazioni di capitale. L’Italia è prima in Europa per “forza lavoro potenziale” (sommando ai disoccupati anche gli inattivi disposti a lavorare, inoccupati, scoraggiati, part time involontari ecc.): in altri termini, se il lavoro attivabile fosse tutto occupato o qualificato, il Pil dell'Italia crescerebbe ben oltre i livelli pre-crisi, altro che zero-virgola.
Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come l’Italia sia più adatta a una crescita trainata dai salari (Wage-led) piuttosto che dalle esportazioni (Export-led). Non si tratta di una “vocazione naturale” del nostro sistema-Paese, ma di una precisa scelta politica. I salari – medi, non solo minimi – svolgono anche la funzione macroeconomica di stimolo agli investimenti e all’innovazione. Tendere alla piena occupazione, aspirare a un volume maggiore della massa salariale, garantire la qualità e la stabilità del lavoro costituiscono elementi fondativi di una crescita più sostenuta e sostenibile. Negli ultimi 40 anni, maggiori profitti e rendite non si sono mai tradotti automaticamente in investimenti, proprio per le basse aspettative di crescita del reddito e dei consumi privati. A ciò si aggiungono, anno dopo anno, tagli alla spesa pubblica e agli investimenti pubblici imposti in nome dell’austerità, malgrado essi rappresentino le prime componenti della domanda aggregata e della crescita, specialmente in periodi di recessione.
Senza investimenti non si può creare il lavoro. Gli investimenti rappresentano il presupposto per impiegare la forza lavoro, consistendo in acquisizioni di capitale fisso effettuate dallo Stato e dai produttori che, sotto forma di beni materiali e immateriali (costruzioni, infrastrutture, macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto, apparecchiature Ict, brevetti, ricerca e sviluppo ecc.), sono destinati a essere utilizzati nei processi produttivi, soprattutto quando vengono orientati su nuovi settori e mercati, su beni e servizi finali importati, su nuove competenze e su maggiore intensità tecnologica.
La letteratura economica (compreso l’Istat) converge sulla stima che un punto percentuale di Pil di investimenti pubblici produce fino a 2 punti di Pil il primo anno e fino a 3 punti di Pil dal secondo anno in poi, con effetti permanenti. Tuttavia, gli investimenti fissi rappresentano la componente più lontana dal livello del 2007 (-25 punti percentuali in 10 anni, oltre 100 miliardi di euro). Per questo la Cgil, coerentemente con la piattaforma unitaria, richiede di programmare un graduale incremento degli investimenti pubblici fino al 6% del Pil, a partire dal Mezzogiorno. Secondo il governo il peso degli investimenti pubblici (prevalentemente locali) dovrebbe passare dal 2% attuale al 2,6% del Pil nel 2022.
Si è tornati a discutere molto di politica industriale, ma senza investimenti pubblici non esiste politica industriale. La storia del nostro Paese lo dimostra. Una strategia di lungo periodo richiede creazione diretta di settori, produzioni, processi, occupazione e persino mercati, orientando l'innovazione in direzione della sostenibilità economica, sociale e ambientale (vedi i cosiddetti Sdgs, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, riportati anche in apposito allegato al Def). Benché nel Def si dichiari l’intenzione di incrementare le risorse per gli investimenti pubblici, non si programmano nuove risorse e, anzi, si prevedono solo 1,3 miliardi di euro di investimenti per il 2020 e 1,6 miliardi nel 2021, dopo il taglio netto operato per il 2019 con l’ultima legge di bilancio.
Le tentazioni elettoralistiche dettate dall’imminente voto europeo, poi, contribuiscono a privare completamente il dibattito politico-istituzionale, non solo dell’idea di un nuovo intervento pubblico in economia, bensì di qualsiasi idea di un nuovo modello di sviluppo. Secondo il governo la leva pubblica si fonderà solamente sulla capacità di spendere negli anni successivi le risorse già accantonate e – nella peggiore delle ipotesi – su una riforma fiscale anti-progressiva, al cui cuore di tenebra ci sarebbe la flat tax.
Riccardo Sanna è coordinatore area Politiche per lo sviluppo della Cgil nazionale