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L’avvicinarsi del referendum del 17 aprile sta determinando un dibattito tra partiti, associazioni, cittadini, più orientato al posizionamento e alla contrapposizione politica che a un approfondimento di merito sulle questioni poste. Sarebbe invece più opportuno cercare di superare luoghi comuni, letture superficiali e favorire un’informazione precisa per una riflessione su di un tema complesso qual è la questione energetica.
Partiamo dal quesito referendario: non si tratta, come si vuol far credere, di un referendum sulle trivelle, il quesito non riguarda nuove trivellazioni o ricerca di nuovi giacimenti, ma interviene sulla durata delle concessioni estrattive di gas e olio in giacimenti già in corso off-shore entro 12 miglia dalla costa (22,2 chilometri).
Non parliamo quindi di trivellare, ma di non disperdere una risorsa che già si sta sfruttando, in una condizione dove sono già stati effettuati investimenti e dove, nelle attività off-shore, sono attualmente coinvolti circa 12mila lavoratori. Vale la pena ricordare che la produzione off-shore costituisce il 67% della produzione nazionale di gas e il 14% di quella petrolifera.
L’affermazione del sì al referendum certo bloccherebbe queste attività, ma evidentemente non inciderebbe sul fabbisogno energetico, sul mix delle fonti primarie (petrolio, gas, energie rinnovabili ecc), ridurrebbe unicamente la produzione di autoapprovvigionamento nazionale, che oggi consente di coprire il 10% dei consumi in Italia, ricorrendo a un ulteriore aumento delle importazioni e della dipendenza energetica mediante transito di petroliere nei nostri mari.
Un nuovo modello energetico non si costruisce con queste modalità. Risulta evidente che temi complessi e delicati non possono essere ricondotti all’espressione referendaria di un sì o di un no. Le scelte sull’energia devono trovare coerenza nella definizione della Strategia energetica nazionale (Sen) in rapporto all’Europa e nell’attuazione degli obbiettivi individuati: scelte atte a ridurre la dipendenza energetica, aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, ridurre progressivamente la quantità di emissioni, anticipando gli impegni europei con largo ricorso all’efficienza e all’uso delle fonti rinnovabili (come peraltro ha indicato la Sen nel 2012).
Il tema centrale di riflessione è che per rilanciare lo sviluppo economico del Paese in termini di sostenibilità e di competitività, in coerenza con gli obbiettivi europei di contrasto dei cambiamenti climatici e di riduzioni delle emissioni, è necessario governare il processo di transizione attraverso graduali scelte di politica energetica, che possano affrontare contestualmente i problemi ambientali, di efficienza, di riduzione dei costi e di competitività del sistema, il rilancio di politiche industriali e occupazionali, valorizzando le potenzialità del Paese.
Vi è un nesso profondo tra questione energetica e politiche industriali: siamo in un contesto nazionale caratterizzato da una presenza significativa del settore manifatturiero ad alta densità occupazionale, dove il differenziale di costo dell’energia (oltre il 30% in più) rappresenta uno dei principali fattori di svantaggio competitivo nei confronti dell’Europa. Non solo. Siamo anche in presenza di un’incidenza ancora significativa dei prodotti fossili nella produzione industriale: penso a settori importanti quali la siderurgia e la produzione di acciaio.
È veramente illusorio e non credibile, in questa situazione, evocare solo un modello tutto basato sulle energie rinnovabili, senza porsi il problema della complessità, di come governare il cambiamento e senza valutarne le ripercussioni economiche, produttive e occupazionali.
Claudio Bettoni, segreteria nazionale Filctem Cgil, responsabile comparto energia e petrolio