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Già dal comunicato stampa della Consulta diffuso il 26 settembre scorso si era capito che, con tutta probabilità, eravamo di fronte a una decisione storica della Corte costituzionale: il rigido criterio di calcolo del risarcimento del lavoratore (in base alla sola sua anzianità di servizio) previsto in caso di licenziamento illegittimo, risultava contrario ai principi previsti dagli articoli 3, 4 e 35 della Carta fondamentale.
L’8 novembre, al deposito delle motivazioni, la probabilità è diventata certezza: la sentenza n. 194/2018 è storica, perché arresta un riflusso (appunto) storico frutto delle destrutturazioni che il diritto del lavoro ha subìto nell’ultimo ventennio e che si è concluso con la madre di tutte le controriforme, il cosiddetto Jobs Act del 2015, ciliegina sulla torta con cui si è tentato di modificare il codice genetico dell’intera disciplina giuslavoristica.
Merito della Cgil e di alcuni giuristi di riferimento della sua Consulta giuridica, che invano avevano tentato di abrogare per via referendaria il decreto 23/2015 e affermare così i principi indicati nella sua Carta dei diritti (tuttora pendente come ddl di iniziativa popolare in Parlamento), aver insistito – dal punto di vista vertenziale-legale – nella ricerca di casi concreti da portare di fronte alla Corte costituzionale. Gli sforzi dei giuristi e degli uffici vertenze di tutta la confederazione hanno, con non poca fatica, portato a un risultato: il Tribunale di Roma, in un giudizio promosso da una lavoratrice iscritta alla Filcams, ha posto la questione alla Consulta chiedendole di giudicare la conformità alla Costituzione del sistema di risarcimento del danno stabilito dall’articolo 3 del decreto n. 23/2015.
Un sistema che, in omaggio ai dettami della dottrina economicista del firing cost, o “costo di separazione”, attribuiva al datore di lavoro il privilegio di bypassare le normali regole civilistiche di risarcimento del danno, sanzionando il suo comportamento illegittimo con una misera e preventivabile somma di denaro. Quel criterio rispondeva pienamente ai dettami della cosiddetta law and economics, secondo cui il diritto deve assolvere alla funzione di predeterminazione rigida dei costi (anche del preventivato comportamento illecito, qual è il licenziamento senza valida giustificazione) da parte delle imprese, indipendentemente dalla valutazione concreta del pregiudizio arrecato al lavoratore e dalla scorrettezza del comportamento da parte del datore di lavoro. Si trattava, in sostanza, di monetizzare l’illegalità.
La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 ha messo in discussione questo punto ed è, a ben vedere, un risultato straordinario e in controtendenza, che potrà costituire un efficace deterrente contro i comportamenti opportunisti dei datori di lavoro che, in passato, sapendo in anticipo quanto sarebbe costato un licenziamento ancorché illegittimo, hanno comminato licenziamenti di comodo consapevoli della sostanziale impunità. Occorre precisare che, nel frattempo, il nuovo governo è intervenuto sulla materia non – come era stato tanto sbandierato – ponendo in discussione l’impianto generale delle “tutele crescenti”, bensì esclusivamente con l’aumento del range tra il minimo e il massimo del risarcimento (non più 4-24 mesi, bensì 6-36 mesi).
Questo perché il decreto dignità, lungi dall’aver reintrodotto l’articolo 18 cancellato dal governo Renzi con il decreto 23/2015, ha solo aumentato l’importo senza modificare il sistema rigido di forfetizzazione del danno subito dal lavoratore, sistema che la Corte costituzionale ha dichiarato, come abbiamo visto, illegittimo. D’ora in poi, quindi, una possibile condanna a 36 mesi di risarcimento (per ottenere la quale avremmo dovuto attendere, prima di questa sentenza e l’aumento del decreto dignità già citato, l’anno 2033) certamente indurrà i datori alla prudenza e offrirà al sindacato e all’avvocato maggiori spazi di trattativa.
La sentenza della Corte costituzionale rappresenta, quindi, un cambio di rotta molto importante, che rimette la persona al centro dell’ordinamento giuridico del lavoro. In questo senso, sono da incorniciare le limpide parole che si ritrovano nella motivazione: “L’affermazione sempre più netta del ‘diritto al lavoro’ (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla ‘tutela’ del lavoro ‘in tutte le sue forme ed applicazioni’ (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l'altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”.
Con questa sentenza, quindi, si riattribuisce alla sanzione risarcitoria la sua funzione, sancita anche a livello europeo dalla Carta sociale (articolo 24), di effettiva deterrenza contro i comportamenti illegittimi dei datori di lavoro. Proprio per questa ragione vi è stata violazione dell’articolo 117 della Costituzione, che impone il rispetto delle fonti internazionali. A questo proposito, è doveroso sottolineare che proprio questo aspetto riguardante la violazione dell’articolo 24 della Carta sociale europea è ancora sub iudice a livello sovranazionale, perché la Cgil, accanto alla già menzionata politica vertenziale “interna”, ha deciso di redigere un reclamo collettivo al Comitato europeo dei diritti sociali, organo paragiurisdizionale che sovrintende al rispetto, da parte degli Stati aderenti, della Carta stessa.
La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, riconoscendo alla Carta sociale europea la natura di “norma interposta” tanto da dichiarare illegittima quella parte del decreto 23/2015 a essa contraria per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, costituisce certamente un passaggio smarcante per il Comitato, che vedrà così corroborata la propria precedente “giurisprudenza” (si vedano i recentissimi casi, molto simili a quello italiano, di dichiarazione di non conformità all’articolo 24 della Carta sociale di alcune norme finlandesi di limitazione del risarcimento del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo).
In definitiva, dopo la severa bocciatura da parte della Corte costituzionale, il sistema delle cosiddette “tutele crescenti” potrebbe incassare un altro stop, stavolta a livello internazionale. Ma vi è di più: come sottolinea efficacemente la stessa Corte, “il ‘diritto al lavoro’ e la ‘tutela’ del lavoro ‘in tutte le sue forme ed applicazioni’ comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. (…) Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge là dove si consideri che ‘il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti’”.
A tutto ciò si deve aggiungere un’altra considerazione: con la recente sentenza n. 77/2018, la Corte costituzionale, in un giudizio anch’esso seguito dalla Cgil, ha reso meno rischioso il processo per il lavoratore dal punto di vista della condanna alle spese in caso di soccombenza. Non è quindi azzardato affermare che, d’ora in poi, a seguito di queste due importantissime sentenze, il sindacato e tutti i lavoratori in genere potranno avere modo di sviluppare un’attività vertenziale e legale molto più incisiva rispetto al recente passato.
Infatti, l’altro tratto distintivo e fondamentale della sentenza n. 194/2018 consiste nell’aver restituito al giudice del lavoro, su istanza dei lavoratori, la possibilità di commisurare il risarcimento sulle effettive esigenze del lavoratore e in relazione alle circostanze in cui è maturato il licenziamento illegittimo. La stessa Corte indica, in questo senso, che i parametri che il giudice dovrà seguire, oltre a quello dell’anzianità di servizio, sono: “Numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti”.
Il tratto che accomuna queste due importanti sentenze della Corte costituzionale sembra, inequivocabilmente, quello di porsi nella prospettiva del raggiungimento di quel principio di eguaglianza sostanziale scolpito dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, a mente del quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
La sentenza della Corte costituzionale è indubbiamente un significativo passo in avanti per la Cgil e per tutto il mondo del lavoro, rappresenta un cambio di marcia notevole dal punto di vista della valorizzazione dei principi costituzionali e costituisce un punto di partenza fondamentale dal quale il legislatore potrà trarre elementi utili per una revisione complessiva delle tutele del lavoratore, a partire dalla riaffermazione della reintegrazione nel posto di lavoro come chiave di volta per l’effettivo godimento di quelle tutele.
Alla Corte, hic et nunc, considerata la temperie culturale obiettivamente poco favorevole ai diritti dei lavoratori e la spaccatura al suo interno, non si poteva chiedere di più, tenuto presente che l’ordinanza del Tribunale di Roma partiva dal presupposto – che emerge dalla risalente giurisprudenza costituzionale e dal giudice capitolino condiviso – della mancata copertura costituzionale della reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Si può certamente discutere se ciò sia obiettivamente desumibile dalla Carta costituzionale (e le politiche vertenziali-legali della Cgil continueranno a cercare di ottenere questo riconoscimento anche in futuro), ma spetta ora più che mai alla politica e all’azione sindacale raggiungere questo fondamentale obiettivo, che la Cgil considera un irrinunciabile principio di civiltà, come scolpito nella Carta dei diritti fondamentali di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori.
Lorenzo Fassina è responsabile ufficio giuridico e vertenze legali Cgil nazionale
Di questo si parlerà in un seminario della Consulta giuridica della Cgil, "La sentenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti?", che si terrà il prossimo 14 dicembre nella sede nazionale del sindacato (guarda il programma completo)