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"L'austerità non funziona”, afferma la Confederazione europea dei sindacati, le conseguenze per l’Europa sono devastanti: blocco della crescita e disoccupazione in continuo aumento. Con i tagli ai salari e alle protezioni sociali si aggravano le disuguaglianze e l’ingiustizia sociale e ormai sono 25 milioni gli europei che non hanno lavoro e in alcuni paesi il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50 per cento. Contro questo stato di cose il 14 novembre la Ces ha indetto una giornata di mobilitazione per chiedere “un cambiamento di rotta”. Ne parliamo con Paolo Guerrieri, che insegna economia alla Sapienza di Roma e al College of Europe di Bruges.
Rassegna La distanza tra la realtà dell’economia e le decisioni della politica, tra la velocità della prima e i tempi della seconda, è sempre più impressionante, non crede?
Guerrieri I dati più recenti confermano pienamente questa distanza: a tre anni dallo scoppio della crisi, l’area dell’Euro è tornata a vivere una fase recessiva e in prospettiva appare destinata a fronteggiare un periodo prolungato di ristagno economico, che si potrebbe estendere a tutto il decennio in corso. È il risultato scontato delle politiche di austerità fiscale perseguite oggi pressoché in tutta Europa. Per le modalità e l’intensità con cui sono state somministrate hanno spinto prima i paesi periferici più indebitati e, poi, l’intera area Euro verso una fase di recessione, trainata dal forte deterioramento delle prospettive del comparto manifatturiero. In presenza di una diminuzione dell’attività produttiva il peso relativo del debito dei paesi è continuato a salire, con un risultato opposto a quello sperato. Ciò è avvenuto non solo nel caso dei debiti sovrani, ma anche per i prestiti commerciali delle banche, aumentando le pressioni verso il basso. Si dovrebbe allora prendere atto di questi fallimentari risultati, per voltare pagina circa le politiche da adottare. Ma non è quello che sta avvenendo. Bisogna aumentare, dunque, le pressioni perché ciò si verifichi.
Rassegna A proposito di politica ed economia, la Grecia è di nuovo sull’ottovolante. Samaras annuncia un accordo con la troika, ma la sua maggioranza scricchiola e la Corte dei conti ellenica si pronuncia contro la riforma delle pensioni. Tutto da rifare proprio quando i tedeschi sembravano essersi ammorbiditi?
Guerrieri Siamo di fronte alla ripetizione di dinamiche e comportamenti già visti, più volte in passato. L’aspettativa generale è che alla fine si riuscirà a trovare un accordo sul versamento dei nuovi aiuti finanziari al governo di Atene. Ma è altrettanto generale la convinzione che l’accordo, per quanto necessario, non sarà affatto in grado di stabilizzare l’economia greca, né tantomeno assicurarle prospettive di rilancio. Il fatto è che il caso greco, per quanto unico per molti tratti, continua a mettere spietatamente a nudo tutti i limiti della strategia di gestione della crisi adottata finora dai paesi europei. C’è un’altra idea che ha ripreso a circolare ed è che il superamento della fase più critica della crisi del debito europeo renderebbe gestibile a questo punto un default di Atene ordinato, in grado di accompagnare la Grecia fuori dell’area Euro. In realtà molti altri sostengono il contrario. Il ritorno della Grecia alla dracma scatenerebbe sui mercati europei – al di là dei drammatici costi per l’economia greca – una serie di reazioni a catena, con effetti di contagio diffusi e in larga misura difficili da prevedere e controllare. Per non parlare del discredito che investirebbe le istituzioni e gli organismi dell’area Euro e dell’intera Europa. Tutto ciò in una fase in cui si dovrà ultimare il fondamentale negoziato sull’Unione bancaria a cui sono interessati molti paesi, tra cui l’Italia.
Rassegna Ciononostante gira qualche manifestazione di maggior fiducia nel futuro. Il presidente Hollande, qualche giorno fa, ha detto che “la zona Euro sta per uscire dalla crisi di incertezza che l’ha colpita, ma non siamo ancora giunti alla sua conclusione, affermando comunque che “entro la fine dell’anno bisognerà prendere delle decisioni, ad esempio sulla Grecia e attuare le decisioni giù prese sui sistemi anti crisi europei”. Draghi e Rehn, due giorni dopo, hanno espresso chi un cauto ottimismo, chi un minor pessimismo. C’è qualche riscontro concreto o siamo a dichiarazioni a uso e consumo esclusivo dei mercati, aspettando come sempre che la soluzione venga dagli altri attori dell’economia mondiale (Usa e Bric in testa)?
Guerrieri È certamente vero che le nuove misure annunciate tra luglio e settembre dalla Bce per l’acquisto sui mercati secondari di titoli sovrani dei paesi più indebitati e in difficoltà, a partire da Spagna e Italia, hanno contribuito in misura determinante a evitare un’estate di fuoco sui mercati finanziari europei e a determinare il recente forte abbassamento degli spread dei titoli spagnoli e italiani. Ma tali misure d’intervento non vanno lette, certo, come la soluzione della crisi del debito europeo. Servono a far guadagnare alla politica europea un po’ più di tempo per varare un piano credibile, in qualche modo innovativo rispetto alle davvero inadeguate e per molti versi fallimentari politiche di austerità fin qui perseguite. Per una soluzione, più o meno definitiva, della crisi dell’euro occorre in realtà mettere in campo tre ingredienti fondamentali: in primo luogo un deciso passo verso l’Unione bancaria in termini non solo di sorveglianza centralizzata, ma anche di garanzia e meccanismi di risoluzione comuni a livello europeo. Poi serve una strategia di medio-lungo termine in grado di garantire la sostenibilità dei debiti sovrani, in termini di messa in comune dei rischi di questi debiti, per abbassarne drasticamente i costi di finanziamento. Infine, come già sottolineato, bisogna arrivare a un ben più efficace coordinamento delle politiche macroeconomiche basato su simmetrici meccanismi di aggiustamento, che siano tali da favorire una sostenuta dinamica di crescita. Senza la crescita, in effetti, non ci sarà alcuna possibilità per tutta una serie di paesi, incluso il nostro, di poter onorare nei prossimi anni i loro debiti sovrani.
Rassegna A proposito di tedeschi, dal suo osservatorio ci sono state evoluzioni nell’approccio alla crisi, come sembrerebbe testimoniare l’atteggiamento verso la Grecia? A stare invece all’ultimo comunicato dopo l’incontro con Fmi e Ocse di due giorni fa, sembra esserci ben poco di nuovo: debiti pubblici insostenibili, necessarie riforme strutturali e dei bilanci e via dicendo...
Guerrieri Angela Merkel ha dimostrato di recente un maggiore pragmatismo appoggiando le misure delle Bce, prima ricordate, anche di fronte alla dichiarata ostilità della Bundesbank. Su tutto il resto, però, non ci sono stati cambiamenti significativi nell’approccio della Germania. Il governo conservatore continua a voler imputare la crisi ai paesi più indebitati e vuole che questi ultimi si accollino tutti i costi dell’aggiustamento attraverso politiche fiscali restrittive e con gli effetti deflazionistici che abbiamo prima sottolineato. È una visione del tutto parziale, che ignora la natura sistemica della crisi dell’area Euro. Che è sì una crisi del debito sovrano, ma anche una crisi bancaria, in cui il sistema bancario tedesco, ad esempio, ha pesanti responsabilità. Il governo tedesco sostiene di dover agire sotto la pressione dell’opinione pubblica, ma in realtà ai cittadini tedeschi non è stata detta la verità circa il ruolo delle banche di quel paese e le perdite incalcolabili che il collasso dell’euro provocherebbe per le tasche dei contribuenti. Né viene loro spiegato che questi costi aumenteranno quanto più la Germania continuerà a rinviare certe scelte fondamentali.
Rassegna E venendo alle cose di casa nostra, come valuta la vicenda della Legge di stabilità? A nostro avviso il governo dei tecnici ha giocato sul fisco, tra riduzioni delle aliquote (e però anche delle detrazioni) e aumento dell’Iva, una partita confusa e pasticciata, venendo in qualche modo “salvato” dai cambiamenti di buon senso che il Parlamento (la tanto vituperata “politica”) ha poi concordato con il ministro Grilli. E comunque per la crescita c’è assai poco...
Guerrieri Sì, le proposte del governo sono apparse assai confuse e improvvisate. Il governo aveva escluso fino all’ultimo la necessità di una nuova manovra, ma l’aveva poi varata di fatto, attraverso una complicata serie di misure, con costi e benefici per il contribuente di così incerta determinazione che il saldo algebrico finale era stato valutato positivamente dal governo, mentre decisamente negativo era apparso a una nutrita schiera di osservatori, più o meno ufficiali. Hanno fatto bene, dunque, i rappresentanti dei partiti della maggioranza a rivedere radicalmente la composizione della manovra, in chiave di miglioramento della competitività e della domanda interna. Detto questo, al di là degli indiscussi meriti del governo presieduto da Mario Monti per aver evitato una crisi di insolvenza del nostro paese, è bene che si arrivi quanto prima all’insediamento di una nuova maggioranza e di un nuovo governo, perché la situazione della nostra economia rimane molto grave e costellata di fragilità. Avrà bisogno di un percorso di risanamento molto lungo – è inutile illudersi – incentrato necessariamente sui due grandi obiettivi del consolidamento del debito, da un lato, e di rilancio della crescita-occupazione, dall’altro.
Rassegna Per chiudere, tornerei all’inizio, alla mobilitazione sindacale del 14 novembre. Sacrosanta ma forse un po’ tardiva – e del resto coordinare 85 organizzazioni di 36 paesi, dentro e fuori l’Ue, non è compito molto più facile di quello delle altre istituzioni di Bruxelles. Che peso potrà avere nei processi di decision making europei?
Guerrieri Il grande rischio per l’immediato futuro è che si rafforzino e consolidino le divisioni all’interno dell’Europa, con uno squilibrio cronico tra il costante progresso dei paesi in surplus, capitanati dalla Germania, e i paesi in deficit, tra cui il nostro, schiacciati dal peso debitorio. Un’Europa a due velocità, che potrebbe mettere a rischio la coesione politica dell’Ue e con essa lo stesso modello sociale europeo. Una grande mobilitazione delle forze sindacali europee potrebbe servire a rilanciare un’idea diversa e più solidale dell’Europa. Come prospettato da molte forze progressiste, oggi in Europa sarebbe possibile approfittare della crisi per dotarsi di nuovi strumenti comuni di politica economica e fiscale. Si dovrebbe accettare l’idea che una gestione di fatto comune dei bilanci e dei debiti è necessaria al rilancio dell’euro. Magari attraverso una più equa ripartizione dei costi dell’aggiustamento tra creditori e debitori, che solo un salto di qualità del processo di integrazione può oggi consentire. Il contrario dell’attuale volontà di disintegrazione. È un programma fattibile dal punto di vista economico. Il vero ostacolo oggi è di natura politica.