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Ieri (2 febbraio) Matteo Renzi è tornato a parlare del decreto fiscale, che – dopo le tante polemiche suscitate prima di Natale – nei prossimi giorni tornerà in Consiglio dei ministri. “Sulla norma del 3 per cento stiamo valutando, verificando, vedremo se cambiarla e come”, ha detto il premier ai microfoni di Rtl 102,5, nell’ambito di un’intervista in cui non sono mancate le aperture soprattutto nei confronti dei professionisti utilizzatori di partite Iva, preoccupati per le nuove disposizioni fiscali sui minimi.
Sul decreto fiscale, il provvedimento derivante dalla legge delega n. 23 del 2014 e approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 24 dicembre, è stato detto tutto e il contrario di tutto. Il presidente del Consiglio lo ha definito un grande passo in avanti rispetto alla precedente normativa, in grado di dare più certezze e più chiarezza nelle regole, oltre a sanzioni inasprite per chi evade. I suoi detrattori, in particolare sul versante sindacale, si sono invece soffermati sull’impianto del documento, sulla sua filosofia “conservatrice”, tutta centrata – come nella peggiore tradizione italica – su un fisco troppo poco equo e troppo spostato sui redditi più bassi.
E tuttavia, il decreto è stato oggetto di discussione nei media quasi esclusivamente in merito all’articolo 19 bis e alla previsione di depenalizzazione dell’evasione sotto il 3 per cento del fatturato. In buona sostanza, per le sue possibili conseguenze ad personam, “un regalo a Berlusconi previsto dal patto del Nazareno”, in virtù del quale all’ex Cavaliere potrebbe essere cancellata la condanna nel processo Mediaset, con la conseguente possibilità di ricandidarsi alle prossime elezioni.
Quel che è certo, al di là del pasticcio salva Berlusconi contenuto nel decreto di attuazione della delega fiscale (un’iniziativa quasi troppo goffa per essere vera) e che ha obbligato il governo a rimandare al 20 febbraio la scrittura definitiva del testo, è che quella che si profila all’orizzonte non è la riforma fiscale necessaria al nostro paese, perché non nasce con l’idea di riordinare la politica delle entrate, perché affida il rispetto del principio di proporzionalità alla sola Irpef, pagata per oltre l'80 per cento dai redditi fissi, perché tassa poco e male il patrimonio.
Ma il boccone in assoluto più amaro da ingoiare è che nel nostro paese, anche dopo l’approvazione del decreto fiscale, l’evasione rappresenterà ancora di fatto una scelta conveniente, visto e considerato che il controllo ritenuto più efficace, quello assistito da indagini bancarie, appare assai improbabile, in quanto – stando ai dati messi a disposizione dalla Cgil – ogni anno può interessare, nel migliore dei casi, dai 15 ai 20.000 soggetti su 40 milioni di contribuenti.
Eccola spiegata la convenienza, nel nostro paese, dell’evasione fiscale. Un’amara constatazione che fa dire a Cristian Perniciano, responsabile delle politiche fiscali di corso d’Italia, che l’esile probabilità di un controllo approfondito, abbinata alle scarse sanzioni in caso di acquiescenza immediata, rendono questo odioso reato, anche laddove scoperto, poco più costoso degli interessi di un finanziamento a breve. Senza però dover preoccuparsi di offrire garanzie.