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L’economia di The Donald sarà coerente coi pronunciamenti fatti in campagna elettorale? O, all’opposto, il prossimo ingresso nello studio ovale di Trump presidente toglierà a molte proposte l’originaria radicalità? Difficile dirlo; certo, è facile presumere che vi sarà conflitto tra le necessità della realpolitik e la volontà di tutelare la propria costituency elettorale, specie nella prospettiva di un eventuale rinnovo del mandato tra quattro anni. Insomma, cosa dobbiamo aspettarci dalla Trump economics?
È presto per avere certezze; tuttavia, qualche traccia per azzardare delle ipotesi c’è, pur scontando il fatto che l’asprezza dei toni dello scontro politico con la Clinton potrebbe aver spinto il futuro presidente a esagerazioni che poi, entrando in ruolo e indossata la maschera istituzionale, potrebbe lasciar cadere. A ogni buon conto, alcune linee guida si possono intravvedere; opportuno, quindi, ragionarci sopra, quantomeno perché la sua politica economica e la sua diplomazia commerciale e monetaria, quali esse saranno, condizioneranno il futuro della geoeconomia e della geopolitica globali; e, ovviamente, dell’Unione europea. Pertanto, per cercarne le tracce, è d’obbligo ripercorrere quanto Trump stesso ha annunciato in campagna elettorale.
Naturalmente, facendovi la tara, visto che in queste occasioni si tende a sorvolare dai vincoli della realtà coi quali poi, se si vince, si è obbligati a fare i conti; ma, soprattutto, tenendo ben presente che l’inquilino della Casa Bianca, chiunque sia, in primis tutela gli Usa; e che, quindi, per gli altri Paesi ciò che conta è capire i vantaggi, ma soprattutto i costi, delle decisioni di Washington. I punti delicati dell’agenda di Trump, almeno dal punto di vista degli alleati degli States, sono tre.
Il primo riguarda la distribuzione dei costi di partecipazione all’economia della difesa comune, che vuol anche dire ridiscutere la funzione della Nato, compresa la sua proiezione verso il Baltico. Il secondo attiene alla “politica degli scambi internazionali” e, nel contesto europeo, al dubbio destino di quel Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) che, nel quadro strategico di Obama, era una sorta di Nato delle merci euro-atlantica in funzione anche di barriera alla penetrazione commerciale cinese in Europa.
Senza dimenticare la politica fiscale della nuova amministrazione. Quest’ultima merita particolare attenzione, perché, qualora si traducesse in spinte al deficit pubblico negli States e nella conseguente necessità di finanziarlo, alzando i tassi d’interesse, a pagare il conto potrebbero essere i Paesi euro-latini, con l’innalzamento del costo del rifinanziamento sui mercati del loro debito sovrano; detto altrimenti, sarebbe il ritorno della febbre da spread.
Merita ricordare al riguardo che, ai tempi di Reagan, analoghe politiche espansive finanziate in deficit produssero una crescita dei tassi d’interesse che portò al default molti Paesi dell’America Latina; e che, perciò, la storia potrebbe ripetersi, mettendo questa volta in difficoltà il Sud dell’Europa. Sicuramente, l’agenda di Trump è vasta; ma merita dipanarla.
“Pagati la tua difesa, perché gli Usa sono stanchi di offrirtela gratuitamente”: questa è un’aspirazione già presente nelle richieste di Obama; ma col tycoon newyorkese la pressione sull’Europa affinché provveda maggiormente alle necessità di sicurezza s’annuncia – e in parte la cosa può essere pure benefica – molto più pressante. In altri termini, qui vi è una certa continuità tra l’amministrazione entrante e quella che ormai si appresta a “consegnare le chiavi” della Casa Bianca.
D’altronde, la politica della difesa di Obama, col suo “comandare senza esporsi troppo” – lasciando, come in Medio Oriente, alleati e contendenti (Putin e gli europei) a bollire, impedendo così il costituirsi di poli di forza alternativi agli Usa – troverà più continuità in Trump, pur nell’ipotesi di un meno duro rapporto con Mosca, di quanta ne avrebbe trovata nella “tradizionalista atlantica” Clinton, molto più propensa al cosiddetto “interventismo democratico”. Analogamente, ciò varrà anche in ambito dei finanziamenti alla difesa, dove la polemica obamiana contro i free riders (i paesi Nato che godono della difesa comune senza pagarne adeguatamente il prezzo) troverà con Trump una voce, non solo pragmaticamente, ma pure ideologicamente, più esplicita e decisa.
Se a ciò si aggiunge che le nostre economie esistono grazie all’infrastruttura militare Usa, l’Europa (con Giappone Sud Corea) faticheranno a evitare di metter mano al portafoglio. In fondo l’Europa, come recita un noto adagio, è un gigante economico, un nano politico e un verme militare; a supplire, finora, Washington, ma al prezzo di una radicale riduzione degli spazi di sovranità del Vecchio continente (militare, politica, quindi monetaria ed economica).
Pertanto, in materia, la sfida di Trump, che ricorda che senza hard power neppure esiste il soft power, potrebbe forse significare, se gli Stati europei affronteranno seriamente e con precisi progetti geopolitici la questione militare, che qui essi potrebbero avere in cambio del maggiore impegno un’acquisizione di sovranità: merce di cui tutti questi sono piuttosto carenti.
Altrettanto – anzi, forse ancor più – delicata, è invece la questione del commercio internazionale, del protezionismo e, naturalmente connessa a questi, del Ttip. Il punto da chiarire è che con l’elezione di Trump è venuto meno, come già accennato, il disegno neo-occidentale di Obama di creare a Ovest col Ttip e a Est col Tpp (Tran pacific partnership), una rete di rapporti commerciali che privilegiasse gli alleati degli Usa per far fronte comune verso gli altri competitori geopolitici e geoeconomici, al fine di tenere sotto pressione sia la Russia, per Obama la sfidante geopolitica, che Pechino, lo sfidante per ora soprattutto geoeconomico; ma, in prospettiva, come si evince da quanto avviene nel Mar della Cina, pure militare.
Ora, viceversa, con il nuovo inquilino dello studio ovale e col nuovo Congresso nordamericano a trazione repubblicana, cambieranno alcune priorità della diplomazia commerciale di Washington. Attenzione, però: misure protezioniste le ha attuate (circa una ventina) pure l’amministrazione Obama; e già nel 2016 il Congresso ha votato la possibilità di agire contro l’export in Usa di Paesi con un eccessivo attivo commerciale nei loro confronti.
Quindi, certo, qui vi saranno degli elementi di continuità; tuttavia, con la differenza che la nuova amministrazione, rispetto alla precedente, è apparsa in campagna elettorale meno interessata a difendere (anche in momenti di conflitto economico com’è il “caso Volkswagen”) l’idea di comunità euro-atlantica. Naturalmente, c’è la speranza che la realpolitik imponga l’abbandono di una lettura letterale della narrazione elettorale di Trump.
Diversamente, potrebbero essere guai seri. Nel senso che, essendo gli Usa con il loro import decisivi della crescita globale, quella stretta protezionista usata come arma di marketing politico dal candidato The Donald, se confermata e implementata dal presidente Trump, avrebbe conseguenze piuttosto pesanti, imponendo una dura contrazione all’economia globale; quella del Vecchio continente compresa.
Insomma, con Trump probabilmente la diplomazia commerciale euro-atlantica sarà meno idilliaca; pertanto, meglio prepararsi per tempo. Soprattutto, per i tradizionali partner europei degli States c’è il rischio, con l’eccezione della Gran Bretagna, di perdere lo status, finora certo, di membri di una comunità di alleati, per regredire a partner, invero piuttosto secondari, di una nuova visione del mondo ancorata su Washington, Londra, Mosca e Pechino; e della conseguente perdita di peso geoeconomico e geostrategico prima della Nato e poi del Vecchio continente.
Oltretutto, neppure si deve dimenticare che se Trump, entro certi limiti – dati dalla necessità di evitare il formarsi di un asse Berlino-Mosca, nocivo alla forza della presenza statunitense in Europa – può fare il “duro” con quest’ultima, viceversa con Pechino deve andarci cauto. Il motivo è che la Cina dispone di una forte arma di pressione sugli Usa: la massa enorme di asset in dollari che detiene; e che le danno buone carte nel “Grande Gioco” valutario e commerciale globale. Gioco che, non a caso, Lawrence Summers, già segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Clinton, definì una decina d’anni fa come “equilibrio del terrore finanziario”.
Effettivamente, basterebbe una forzatura di troppo, e l’obiettivo del neopresidente degli States di bloccare il deficit commerciale con la Cina potrebbe trasformarsi, se Pechino reagisse con vendite sui mercati degli asset in biglietti verdi di cui dispone, in uno tsunami finanziario sul dollaro. Certo, pericolosissimo pure per la Cina; ma micidiale per la tenuta del dollaro come valuta regina globale.
La qual cosa dovrebbe essere sufficiente a indurre Trump a una partita, salvo che la tenuta del consenso non lo porti a far rivivere le radicalità del candidato Trump, più prudente dell’annunciato. O, almeno, ciò è auspicabile. Resterà comunque, nel nome del suo “Make America great again”, una politica commerciale internazionale meno propensa al multilateralismo, cioè a privilegiare politicamente il rapporto con gli alleati; per essere, al contrario, orientata a specifici rapporti bilaterali, Paese per Paese.
In conclusione, il “mondo di Trump”, meno multilaterale e più bilaterale, potrebbe implicare per l’Ue di doversi arrangiare (perso il quadro occidentalista del Ttip) senza la copertura di Washington nei suoi rapporti, per esempio, col Celeste Impero, nei confronti del quale, a peggiorare la situazione, è per di più divisa: lo dimostra la disputa tra l’Italia e il Nord Europa sul riconoscimento della Cina come “economia di mercato” (cosa che darebbe a quest’ultima enormi vantaggi, a partire dalla ridefinizione a suo favore delle regole antidumping).
Ma i problemi potrebbero venire, oltre che da Est, pure da Ovest. Nel senso che, se la visione del nuovo presidente degli Usa sarà più nazionale che imperiale, pure l’accesso europeo ai mercati nordamericani potrebbe trasformarsi, lo ricorda il già citato “caso Volkswagen”, in complesse dispute diplomatico-commerciali. Insomma, se il neopresidente assomiglierà troppo al candidato Trump, il rischio per l’Ue, senza precisa presa di coscienza dei rischi che ha di fronte, è quello di fare, in ambito dei conflitti commerciali globali, la fine del vaso di coccio tra vasi di ferro.
Resta il tema della finanza pubblica o, più precisamente, di quali potrebbero essere gli effetti sull’economia-mondo delle future decisioni del nuovo establishment nordamericano. Qui l’annuncio elettorale di Trump, ricordiamolo ancora, prevede massicci sgravi fiscali accompagnati da più spesa pubblica. Però, il nuovo presidente vorrebbe pure abbattere il deficit commerciale degli Usa; in apparenza, ciò è contraddittorio con una politica finanziaria a maglie larghe, che di per sé spinge, invece che ad aggiustare la bilancia commerciale, a incrementare ulteriormente le importazioni; salvo che egli punti ad aggressive politiche di dumping fiscale per spingere le aziende a produrre in Usa.
A ogni buon conto, in questa prospettiva, la Federal Reserve (la Banca Centrale degli States) potrebbe rompere gli indugi e aumentare i tassi d’interesse, spinta anche dalla necessità “tecnico-politica” di favorire il finanziamento del debito degli Usa attraendo capitali dal resto del mondo. Naturalmente, la “strada della realtà”, che è sempre più drammaticamente opposta a quella dei successi elettorali, anche qui farà pagare un prezzo alla “nuova” Casa Bianca. Questo perché, qualora gli Stati Uniti pretendessero di nuovo di finanziare il loro deficit commerciale con pesanti prestiti esteri, facilmente potrebbe aprirsi una disputa, magari proprio da parte di Pechino, sull’egemonia del dollaro sullo scacchiere monetario-finanziario dell’economia-mondo.
Certo, il biglietto verde è tuttora privo di veri competitori, quantomeno perché l’infrastruttura militare dell’economia-mondo è tuttora statunitense; tuttavia, il regno del biglietto verde è meno certo di un tempo. Ciò posto, fuori da scenari geostrategici di più lungo periodo, le eventuali spinte del nuovo inquilino dello studio ovale sulla Fed per aumentare i tassi d’interesse potrebbero essere piuttosto pericolose per il nostro Paese. In un contesto statunitense rialzista del costo del denaro, infatti, difficilmente il presidente della Bce potrebbe resistere alle pressioni di severità monetaria della Bundesbank: questo, conseguentemente, potrebbero incidere duramente sul finanziamento (dunque, sullo spread) del nostro debito pubblico.
In definitiva, il neoeletto presidente qualche problema, anche involontariamente, potrebbe procurarlo, sia all’Ue che all’Italia. Molti commentatori italiani, annunciando le loro preferenze o per Trump o per la Clinton, parevano ragionare come fossero dei cittadini degli Usa chiamati a scegliere il loro presidente: un atteggiamento tra l’inutile e l’assurdo. Piuttosto, visto che le decisioni della Casa Bianca ci riguardano sempre da vicino, sarebbe stato più logico, invece che parteggiare emotivamente per le vicende elettorali statunitensi, valutarne le possibili conseguenze. E prepararvisi.
Francesco Morosini è professore di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia