Una società comunicava a un suo dipendente il trasferimento da Roma a Milano, giustificandolo con la necessità di coprire un posto vacante. Il lavoratore non accettava lo spostamento del posto di lavoro, sostenendo la sua illegittimità, in quanto, a suo avviso, non sussistevano le esigenze organizzative dedotte dall’azienda. Per tutta risposta, la società lo licenziava. Il lavoratore chiedeva allora al tribunale di Roma di accertare l’illegittimità del trasferimento e quindi del licenziamento, sostenendo che, in base all’articolo 1460 del codice civile, egli aveva il diritto di rifiutare l’esecuzione di un provvedimento non legittimo. Non solo. Egli chiedeva – ai sensi dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori – anche la condanna dell’azienda al risarcimento del danno e al pagamento dell’indennità di 15 mensilità sostitutiva della reintegrazione. Il tribunale rigettava la domanda, con una decisione riformata in seguito dalla Corte d’appello.

I giudici del gravame ritenevano infatti inesistenti ragioni organizzative necessarie per la validità del trasferimento, in quanto il posto asseritamente da coprire nella filiale di Milano risultava essere stato già soppresso. Per questo la Corte d’appello condannavano l’azienda al pagamento dell’indennità sostitutiva di 15 mensilità, ma negavano il diritto al risarcimento del danno. Entrambe le parti proponevano ricorso per cassazione. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso dell’azienda, osservava che i giudici d’appello avevano adeguatamente motivato l’accertamento della mancanza di effettive ragioni giustificatrici del trasferimento e conseguentemente correttamente applicato l’articolo 1460 del codice civile, affermando la legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore all’esecuzione di tale misura.

Il provvedimento del datore di lavoro di trasferimento di sede di un lavoratore che non sia adeguatamente giustificato, a norma dell’articolo 2103 del codice civile, ha rilevato la Corte, è affetto da nullità e integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro. Conseguenza di ciò è che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore “trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione d’inadempimento, sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti”. Non si può invece ritenere che “sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento giudiziale”.

La Corte accoglieva invece il ricorso incidentale del lavoratore, che lamentava la mancata condanna al risarcimento del danno. Secondo la Cassazione, il diritto del lavoratore di optare per l’indennità integrativa deriva dalla stessa illegittimità del licenziamento e contemporaneamente dal diritto alla reintegrazione e, quindi, il lavoratore può limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio tale indennità in sostituzione della domanda di reintegrazione, così come può esercitare la stessa scelta nel corso del giudizio, fermo restando il diritto al risarcimento del danno. Tale norma prevede che l’esercizio dell’opzione non fa venire meno il diritto al risarcimento dei danni verificatisi fino al momento in cui l’interessato, optando per l’indennità sostitutiva, ha rinunciato alla reintegrazione.