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Un po' a corto di energie, il settore termoelettrico segna il passo, mettendo a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro e la tenuta del sistema paese. Secondo stime sindacali, su 10 mila addetti, circa la metà sarebbero a rischio. Quello delle centrali termoelettriche è sempre stato un settore d'importanza strategica per l’Italia e in buona salute fino a poco tempo fa; ma, a causa della minor richiesta di energia, dovuta soprattutto alla crisi industriale, con la delocalizzazione di molte fabbriche lontano dall'Italia, oggi il settore è in difficoltà e senza chiare prospettive. Centrali vetuste, eccedenza produttiva, crollo della domanda e, non ultima, la proliferazione incontrollata delle rinnovabili – a cui per altro non è seguito un adeguamento della rete – hanno messo in grave crisi il settore.
Al centro del dibattito, in questi anni, sono stati in particolare proprio gli incentivi alle rinnovabili che hanno certamente permesso una crescita dell'energia pulita, ma che, per il modo in cui sono stati gestiti (fino alla soppressione decisa dal governo Monti), e in una fase di transizione come questa, hanno rappresentato una forte concorrenza con il settore termoelettrico. A parità di prezzo, infatti, l’utilizzo di energia da rinnovabili ha la precedenza e può essere venduta a 0 perché gli incentivi statali creano già di per sé un guadagno. Non solo. Un mercato simile avrebbe dovuto perlomeno permettere un abbassamento del costo dell'energia. In realtà non è stato così: in questi anni, infatti, le bollette hanno continuato a crescere.
Il motivo è semplice. Il conto dei sussidi statali, 12 miliardi l'anno, si è scaricato sulle tasche di famiglie e imprese a causa delle tasse occulte e dei prelievi forzosi inseriti nelle bollette: i cosiddetti “oneri generali di sistema”, il calderone in cui finiscono gli incentivi alle rinnovabili, i costi per la messa in sicurezza delle centrali nucleari, le agevolazioni alle imprese “energivore” e i “regimi tariffari speciali” per le Fs, sono aumentati dal 7 al 21% dal 2009 al 2013 e, rimanendo così le cose, continueranno a salire nei prossimi anni. Un aumento notevole, considerato che il 49% della bolletta che va a coprire materie prime e servizi di vendita, il 13% le imposte e il 15% i costi di rete.
In sostanza, abbiamo un mercato distorto, che non abbassa il costo dell’energia e che fa perdere competitività alle centrali termoelettriche, con tutte le conseguenze immaginabili sui lavoratori del settore. Ad inizio ottobre l’amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, ha annunciato che la società ha già chiuso impianti per 2,4 GW e altri 11 GW sono “potenzialmente da dismettere”: si tratta di ben 23 centrali alimentate da fonti fossili tradizionali, tra cui quelle di Trino, Porto Marghera, Alessandria, Campomarino, Carpi, Camerata Picena, Bari, Giugliano e Pietrafitta, per le quali è stata già avviata la chiusura definitiva. L'azienda sostiene che non ci sarà nessuna criticità occupazionale per le 700 persone impiegate che verranno ricollocate o andranno in pensione. Parole, queste, che però non rassicurano a sufficienza i sindacati che chiedono maggiori garanzie. Resta poi il problema di riqualificare i siti, che potranno avere un futuro nelle rinnovabili, essere soggetti a processi di reindustrializzazione o riprogettati come spazi urbani.
“L'alto costo dell'energia, superiore alla media degli altri paesi europei, si riversa inevitabilmente sulla competitività della produzione industriale, già in difficoltà a causa della crisi – afferma Mauro Tudino, del dipartimento termoelettrico di Filctem Cgil –. A sua volta il crollo della produzione industriale ha fatto diminuire le vendite, mettendo in gravi difficoltà le centrali a carbone e a gas. La situazione generale del ‘sistema’ è questa: le rinnovabili producono solo parte del fabbisogno nazionale, ma avendo la precedenza nell’utilizzo, lavorano sempre seppur ad intermittenza visto che dipendono dalle condizioni climatiche e stagionali. Poi ci sono le centrali ‘indispensabili’, quelle che, in virtù della loro posizione nella rete hanno un'importanza cruciale e guadagnano anche se stanno ferme proprio per salvaguardare la tenuta elettrica del paese”.
Tutte le altre centrali, fa notare Tudino, “si trovano così costrette a contendersi uno spicchio sempre più ristretto. In particolare molte di esse stanno sul mercato solo in presenza di picchi di domanda, oggi sempre meno frequenti a causa della delocalizzazione di molte fabbriche. Basti pensare che in Italia sono disponibili 79 GWh, ma la richiesta non supera mai quota 50 GWh, con 29 GWh che rimangono dunque del tutto inutilizzate. In passato si è investito troppo, tra rinnovabili e idrocarburi, rispetto al fabbisogno effettivo e oggi paghiamo il prezzo di questi errori. In più, ci sono molte centrali vetuste e ferme perché inutilizzate. In questa situazione, ormai, tutte le aziende che operano nel settore hanno fatto ricorso a mobilità e ammortizzatori sociali”.
Nonostante il panorama descritto, i sindacati sono riusciti a siglare importanti accordi. Con Enel (intesa sul turn-over generazionale che prevede l'uscita di 3.500 lavoratori e l'assunzione di oltre 1.500 giovani), innanzitutto, ma anche con A2A-Edipower, E.On., Edison, Tirreno Power, Cofely e con gli svizzeri di Alpiq. La situazione resta comunque drammatica e i sindacati chiedono al governo una chiara politica energetica per rilanciare la richiesta elettrica e con essa la produzione industriale e il sistema Italia. Inoltre, servono garanzie per le migliaia di addetti del settore, perché come detto sono molti i lavoratori a rischio che potrebbero infoltire il numero di cassaintegrati e disoccupati del nostro paese.
Sono tante le aziende a essere in crisi. Anche la Tirreno Power versa in una grave crisi finanziaria. È in particolare la centrale di Vado Ligure a destare maggior preoccupazione per le vicende di queste settimane (vedi articolo nella pagina). L’altro grande gruppo in difficoltà è quello tedesco di Eon-Italia, dove a rischio ci sono 1.000 posti di lavoro e per il quale al momento sono in corso trattative serrate. Ma per quanto i sindacati possano spendersi insieme alle istituzioni, pesano come macigni le parole del vice ministro allo Sviluppo economico, Claudio de Vincenti, secondo cui nel comparto termoelettrico la domanda potrà riprendere solo in quantità limitata.
Sarebbe quindi importante, di fronte a questi dati e alla complessita delle questioni in gioco, produrre energia in modo competitivo e impiegando tecnologie all'avanguardia che rispettino l'ambiente. “Siamo in un periodo di transizione – continua Tudino –. Tra qualche anno avremo un'Italia diversa dal punto di vista energetico ma, come diciamo sempre, dovremo arrivarci vivi. Ben vengano le rinnovabili, ma rendiamoci conto che ancora, da sole, esse non sono in grado di soddisfare il fabbisogno di un paese come il nostro”. Come fare? Il sindacato ha lanciato una proposta “provocatoria”, un patto di solidarietà tra le centrali per spartirsi le ore di lavoro disponibili.
Ogni centrale avrebbe un proprio monte ore all'anno: entra in funzione, lavora per il tempo che gli è stato assegnato e poi cede spazio a un'altra. In questo modo si creerebbe una sorta di solidarietà nazionale e si risparmierebbe anche sui costi ambientali e dei combustibili, perché è la fase di accensione quella che crea maggiori spese e inquinamento. “È soprattutto una provocazione – conclude il sindacalista –, ma dimostra la nostra volontà di conciliare ambiente e lavoro e di trovare soluzioni concrete. Nell'appuntamento al ministero dello Sviluppo economico di fine novembre, al quale hanno partecipato anche le principali aziende produttrici, abbiamo fatto valere le richieste dei lavoratori e discusso su come rilanciare la produzione energetica, con alcune proposte concrete. Quali che siano le decisioni del governo in merito alla strategia energetica da adottare, sappia che non vogliamo essere esclusi e che l’esecutivo dovrà assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Se alcune centrali dovranno chiudere, i lavoratori non potranno essere abbandonati a se stessi e il governo dovrà trovare il modo di reimpiegarli. Ormai gli ammortizzatori sociali stanno finendo e con loro anche la nostra pazienza”.