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"Mi chiamo Lorella Pieralli, ho 54 anni e da oltre venti lavoro in qualità di cantante lirica. Da tempo, ho raggiunto il massimo dell'anzianità consentita, cinque scatti, e la mia busta paga ammonta a 1.800 euro, comprensiva di tutto, inclusa l'unica indennità contrattuale riconosciuta, quella estiva, che scatta per gli spettacoli all'aperto. Collaborare con Muti per sei anni è stato meraviglioso: nelle due tournée di Salisburgo e Tokyo abbiamo ricevuto tonnellate di applausi, tanto che a momenti venivano giù i teatri". Un altro artista preferisce restare anonimo: "Faccio il violinista nell'orchestra del teatro e il mio stipendio è di 1.950 euro, il più basso d'Europa, che potrà salire al massimo a 2.200 a fine carriera. I miei colleghi del Metropolitan di New York o della Filarmonica di Vienna guadagnano, a parità di qualifica e anni maturati, due-tre volte tanto, da 5.000 euro in su di paga base, indennità escluse. Seguire il maestro è stata un'esperienza unica. Un po' come Schumacher con la Ferrari, assieme volavamo". Le voci raccolte appartengono a lavoratori del teatro dell'Opera di Roma, finiti nell'occhio del ciclone delle polemiche, dopo le dimissioni annunciate dal maestro Riccardo Muti lunedì scorso.
Prima di tutto, non è vero che il sindacato ha fatto "fuggire" il direttore d'orchestra più famoso al mondo, per via degli scioperi organizzati o ventilati nel corso degli ultimi mesi. "Una falsità bella e buona – ribatte Alberto Manzini, segretario regionale Slc di Roma e del Lazio –, visto che le agitazioni sono state appena tre rispetto a un totale di 25 rappresentazioni effettuate, e tutte in assenza del maestro. Accusarci, come hanno fatto in tanti, a cominciare dal sindaco di Roma, di aver voluto minare la stabilità del teatro con il nostro comportamento, oltrechè di aver provocato un danno economico e d'immagine, quantificabile in 300.000 euro, è fuori dalla realtà. Noi non abbiamo fatto neanche un'ora di sciopero contro il maestro, ma contro la politica dissennata vigente nelle diverse fondazioni, che sta portando il settore alla rovina". C'è bisogno di un'operazione-verità nei confronti dell'opinione pubblica e della stampa, anche perchè le ragioni che hanno spinto Muti ad andarsene sono ben altre, ha denunciato stamattina l'Slc nel corso di una conferenza stampa, organizzata assieme a Fials Cisal.
"Le vere cause dell'abbandono del maestro – secondo le due sigle sindacali – sono da rintracciarsi nell'incapacità gestionale dei responsabili della fondazione, a partire dal sistema degli appalti, per niente trasparenti, riferiti in particolare a trasporti e pulizie, dove auspichiamo una compiuta inchiesta della magistratura. Tutti i teatri sono governati ormai da sovrintendenti con contratti da manager strapagati, da 250.000 annui in su, eletti dalla politica, che si avvalgono di uno stuolo di consulenti compiacenti. Sono stati creati dei veri e propri comitati d'affari, un'autentica cupola del malaffare, che di politica culturale non sa nulla, nè punta sulla qualità delle produzioni che mette in piedi. Al teatro dell'Opera Muti, al pari di altri quattro precedenti illustri direttori di teatri che hanno lasciato l'incarico negli ultimi anni, da Noseda a Luisotti, a Mehta, si è sentito tradito da tutto ciò, avvertendo che la macchina non funzionava più, come ha scritto giustamente sul 'Fatto quotidiano' Paolo Isotta, il più famoso tra i critici lirico-teatrali".
E ancora, nella penuria strutturale di risorse e mezzi a disposizione, le carenze annose più gravi del teatro Costanzi si rintracciano soprattutto sul piano occupazionale, dove l'unica voce in crescita è quella riferita al personale precario a disposizione (una sessantina di persone). Scendendo nel dettaglio della pianta organica, 93 sono gli orchestrali stabili, rispetto a un fabbisogno di 117; più 18 ballerini, 80 coristi, per un totale di 190 addetti della cosiddetta massa artistica e 140 fra tecnici e amministrativi (oltre 47 precari), per complessive 450 unità, ben poca cosa se rapportate alle 800 persone in forza alla Scala di Milano. "Un maestro come Muti costa – spiega Enrico Sciarra, segretario generale Fials Cisal – , anche perchè per allestire un'opera pretende il massimo, ovvero i migliori registi, costumisti, cantanti e via discorrendo. Stiamo parlando di livelli di eccellenza tali, che in ogni caso abbiamo il dovere di difendere, considerando la nostra storia e la nostra tradizione. Di fronte alla spending review in atto nei teatri, detatta esclusivamente da esigenze di bilancio, come si poteva pensare che Muti restasse? O, rovesciando i termini della questione, come mai nessun artista straniero viene a lavorare da noi?"
A preoccupare ora il sindacato ci sono poi le possibili ritorsioni già organizzate ai danni dei lavoratori dell'Opera. "Il sovrintendente Carlo Fuortes – sostiene Silvano Conti, coordinatore nazionale Slc –, oltre a perseguire un suo modello produttivo, introdotto per la prima volta in una fondazione lirico-sinfonica, basato sull'occupazione precaria 'a geometrie variabili', con bandi di concorso triennali per le figure artistiche a tempo determinato, ha lasciato, come commissaro straordinario, il prestigioso Petruzzelli di Bari in un cratere debitorio di due milioni, con il conseguente taglio di due opere, a discapito dell'occupazione e della tenuta degli abbonamenti di quel teatro. Ora, a Roma, si caratterizza 'nell'avvelenare i pozzi', spaccando le organizzazioni sindacali interne, con la maestria nel conferire incarichi e promozioni, mortificando le competenze, attaccando il dritto di sciopero, punendo l'insieme dei lavoratori sugli stipendi per mascherare il danno erariale da lui stesso provocato. E arrivando addirittura a indire un referendum tra i lavoratori su un accordo sottoscritto assieme al sindacato".
E il caso dell'Opera di Roma è solo la punta dell'iceberg. In rosso fisso e in difficoltà economiche crescenti sono un po' tutte e 14 le fondazioni lirico-sinfoniche, fatta eccezione per la Fenice di Venezia, in attivo e dove si è arrivati a produrre 320 rappresentazioni in un anno. "Da vent'anni – osserva ancora Conti –, si persegue nel taglio dei fondi del Fus (il fondo unico dello spettacolo), che si traduce in un abbassamento continuo del livello culturale del Paese e in una destrutturazione di tutto il settore dello spettacolo. Tradotto in cifre, appena lo 0,16% del Pil va in cultura, contro un minimo dell'1% destinato dagli altri paesi, mentre il contributo fornito dai privati, anzichè aumentare, è addirittura sceso del 4% negli ultimi anni. Sulla stessa falsariga di quanto avviene nella ricerca, come si può pensare di migliorare un sistema come quello lirico-teatrale, che oltretutto è di supporto pedagogico all'istruzione, e di tenere da noi gli artisti migliori?"
E il peggio deve ancora arrivare, avverte il sindacato. Dopo l'introduzione di una serie di leggi che hanno fatto precipitare la situazione (in primis, la 367 del 1997 che ha sancito il passaggio dei teatri lirici da enti a fondazioni), l'ultimo provvedimento, (n° 106/2013) emanato lo scorso anno dall'ex ministro dei Beni culturali Bray, ha stabilito che entro il 2016 tutte le fondazioni che non arriveranno al pareggio di bilancio saranno chiuse attraverso la liquidazione coatta. "Una spada di Democle, che rischia di abbattersi sulle fondazioni e di chiuderle definitivamente – conclude Conti –, a causa dei 360 milioni di debiti complessivi maturati con le banche. Per scongiurare tutto ciò, c'è bisogno di una legge di riforma seria ad hoc, con investimenti pubblici garantiti dallo Stato, che a loro volta attirino fondi privati, come avviene negli altri paesi. A sua volta, nei singoli teatri, vanno messi a punto piani industriali specifici che puntino sulla tenuta e il rilancio delle produzioni. E sul piano sindacale, c'è bisogno di applicare il nuovo contratto nazionale, fermo da dieci anni, e di una diversa politica che punti alla valorizzazione del personale e delle specifiche ed elevate professionalità esistenti".