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Nelle scorse settimane si è molto discusso, anche sulla stampa nazionale, di una ricerca di Tito Boeri, Andrea Ichino ed Enrico Moretti, originariamente presentata nel 2014 e riproposta all’ultimo Festival dell’economia di Trento, secondo la quale, se si tiene conto delle differenze nel livello dei prezzi su base provinciale, i salari reali sarebbero notevolmente più alti nel Mezzogiorno. La causa di questa “anomalia” viene individuata nella contrattazione collettiva nazionale che produrrebbe l’effetto di fissare i salari nominali in modo uniforme sul territorio nazionale, a fronte di un’elevata variabilità dei prezzi e del costo della vita, determinata soprattutto dal diverso prezzo delle abitazioni, più basso nel Mezzogiorno.
Per muovere verso la situazione considerata più equa ed efficiente, i tre autori propongono una ricetta abbastanza semplice: derogare dalla contrattazione nazionale e decentralizzare il livello di contrattazione (possibilmente a livello di impresa) per permettere ai salari nominali del Sud di scendere e, quindi, di condurre verso l’esito auspicato. Il contributo di Boeri, Ichino e Moretti solleva questioni importanti e va attentamente analizzato. Anzitutto, si pongono alcuni problemi tecnici (a cominciare da quello relativo al deflatore da utilizzare per convertire i salari nominali in reali), dei quali non ci occuperemo. Vi sono poi questioni più di fondo, e in particolare proprio le implicazioni per l’efficienza e l’equità dell’auspicato livellamento dei salari reali a livello nazionale, sulle quali intendiamo soffermarci.
Prima di procedere è, però, utile verificare se i salari nominali tra le aree del Paese siano effettivamente uniformi, come la considerazione che essi derivano dalla contrattazione nazionale induce a pensare. Il fatto che la contrattazione di primo livello sia condotta a livello nazionale non esclude che le retribuzioni effettivamente percepite possano differire nelle diverse aree, in ragione di fattori quali: il numero di settimane e di ore effettivamente lavorate (legate anche al numero di ore di straordinario), la presenza di mensilità aggiuntive ed eventuali bonus e la diffusione o meno di contrattazione di secondo livello, che può prevedere incrementi salariali. Solitamente questi fattori, anche a causa del minor sviluppo economico, sfavoriscono i lavoratori del Mezzogiorno, generando divari nelle retribuzioni effettivamente ricevute.
La nostra verifica si basa su un campione di dati amministrativi dell’Inps relativo al 2013 e si riferisce ai divari delle retribuzioni lorde annue complessive (che includono anche straordinari, tredicesime ed eventuali quattordicesime) dei lavoratori dipendenti del settore privato residenti nelle diverse macro-aree del nostro territorio. Ci siamo limitati a considerare chi nell’intero anno è stato occupato full time (così depurando l’analisi da eventuali differenze dovute a rischi di disoccupazione e di part time involontario, ben più frequenti nel Mezzogiorno). La figura 1 mostra i divari dei salari lordi mediani fra aree e segnala che la retribuzione annua effettiva del Mezzogiorno è inferiore di circa 20 punti a quella del Nord-Ovest e di circa 15 punti a quella del Nord-Est.
Fonte: elaborazioni su dati Inps
La differenza delle retribuzioni mediane potrebbe essere dovuta a differenti caratteristiche dei lavoratori e delle imprese residenti nelle macro-aree. Per tenere conto di questo aspetto, abbiamo ricalcolato i differenziali retributivi fra macro-aree mediante regressioni sui logaritmi delle retribuzioni lorde annue percepite dai dipendenti privati occupati full time per l’intero 2013, controllando per una serie di caratteristiche individuali (sesso, età ed esperienza lavorativa, cittadinanza, istruzione e inquadramento professionale; pannello sinistro della figura 2) e poi aggiungendovi le caratteristiche dell’impresa (dimensione e settore, espresso tramite la dettagliatissima classificazione Ateco a 6 livelli; pannello destro della figura 2). Anche controllando per questi “effetti di composizione” il divario territoriale stimato rimane ampio e statisticamente significativo e porta a escludere che la contrattazione nazionale generi eguaglianza delle retribuzioni nominali, indipendentemente dalle condizioni di contesto.
Fonte: elaborazioni su dati Inps
Questa differenziazione fa anche sorgere una domanda rilevante per le questioni di equità ed efficienza di cui stiamo per occuparci e a cui non è facile rispondere: le complessive dinamiche economiche, incluse quelle che si esplicano nei mercati, non potrebbero condurre a una configurazione dei salari che approssima le condizioni di equità ed efficienza più di quanto non risulti in base all’assunzione che i salari siano uniformi a livello nazionale? Chiediamoci allora cosa implichi rispetto all’equità e all’efficienza l’auspicato livellamento dei salari reali.
Iniziamo con l’equità: a prima vista la tesi che a parità di condizioni individuali (in primis, anzianità, istruzione e qualifica) i salari reali debbano essere uguali sembra del tutto giustificabile dal punto di vista dell’equità. Trattare in modo diverso individui eguali vuol dire, come si è ricordato, creare inaccettabili iniquità orizzontali. Tuttavia, a un esame più approfondito, questa tesi non risulta del tutto convincente. Le ragioni sono essenzialmente due: eguagliare i salari reali non vuol dire eguagliare anche l’effettivo tenore di vita, che è ciò che più conta sotto il profilo dell’equità; eguagliare i salari reali medi tra le aree non vuol dire che siano eliminate le differenze all’interno delle stesse, che possono essere enormi e andrebbero tenute in conto in una valutazione equitativa.
In relazione al primo punto, quand’anche si concordasse sul deflatore con cui comparare i prezzi di diverse aree territoriali, la considerazione di partenza è che eguagliare i salari reali non è la stessa cosa che eguagliare il più complessivo benessere economico di individui e famiglie. I primi (e, più in generale, i redditi) sono imperfette proxy del secondo. Per un esame più accurato occorre non limitarsi a correggere i salari nominali con un deflatore dei prezzi al consumo. Le diverse aree del nostro Paese, oltre che per i prezzi medi, differiscono sotto molteplici altre dimensioni rilevanti per il benessere economico (e diversamente traducibili in una misura monetaria): l’offerta di servizi pubblici, la qualità di scuole e ospedali, il livello di inquinamento e di degrado e così via. Queste dimensioni spesso contribuiscono a ridurre il benessere economico di chi risiede nel Mezzogiorno e non è facile dire se ciò compensi o meno l’eventuale vantaggio rappresentato dal minore costo della vita. In ogni caso, non è sufficiente limitarsi ai soli salari reali quando si tratta di equità.
Veniamo ora al secondo punto. Valutare le differenze fra aree correggendo i salari nominali in base ai differenziali nei prezzi significa trascurare eventuali differenze interne alle macro-aree, che potrebbero però rivelarsi ben più ampie di quelle medie fra aree. In particolare, i prezzi delle abitazioni, su cui Boeri, Ichino e Moretti si basano per stimare i differenziali nei salari reali, possono presentare una varianza maggiore all’interno di ogni area che non tra aree. Dai dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi) dell’Agenzia delle entrate – gli stessi utilizzati da Boeri, Ichino e Moretti – si evince non soltanto che di norma i prezzi di acquisto al metro quadro delle abitazioni sono in media maggiori nel Settentrione, ma anche, e con maggiore chiarezza, che i differenziali interni a ogni area sono enormi.
Per fare solo qualche esempio, i valori massimi in alcuni quartieri di centro e periferia – in euro al metro quadro, nel secondo semestre del 2015 – a Milano oscillano fra 9.800 (Brera) e 2.200 (Lambrate), a Torino fra 3.100 (Castello) e 2.000 (Mirafiori), a Roma fra 8.400 (Aventino) e 2.450 (Torre Maura), a Napoli fra 7.700 (Posillipo) e 2.150 (Secondigliano). Di fronte a differenze di questa ampiezza sembra appropriato chiedersi se per realizzare l’equità orizzontale non si dovrebbero differenziare (ove fosse possibile) i salari nominali in base al quartiere di residenza, con effetti che, tuttavia, risulterebbero chiaramente regressivi. Peraltro, guardare soltanto alle differenze “fra gruppi”, lasciando da parte quelle, ben maggiori, “interne ai gruppi”, non consente un’analisi completa delle disuguaglianze e dei loro meccanismi.
Quanto precede porta, dunque alla conclusione che la soluzione prospettata da Boeri, Ichino e Moretti – ovvero perseguire l’eguaglianza omogeneizzando i salari reali – non è priva di problemi sotto il profilo dell’equità e, dunque, prima di raccomandarla occorrerebbe misurarsi più a fondo con questi problemi e con la possibilità di dare loro una risposta migliore. Nella ricerca di tale risposta si dovrebbero considerare anche le questioni di efficienza, con le quali l’equità potrebbe, peraltro, avere rapporti non armoniosi. In modo un po’ approssimativo, possiamo affermare che per l’efficienza, intesa come capacità di attrarre investimenti e occupazione, quello che conta, a parità di altre condizioni, è il costo del lavoro per unità di prodotto. Quest’ultimo, come è noto, dipende in maniera cruciale dalla produttività e non dal costo della vita dell’area in cui è situata l’impresa.
Anzi, dal punto di vista teorico i concetti di produttività e costo della vita non sono legati e nulla osterebbe che in un’area più produttiva e a minor costo del lavoro i salari reali risultassero più elevati. Dal punto di vista dell’efficienza bisogna quindi guardare alla differenza fra produttività e salario reale in ogni area, anziché alla mera differenza dei salari reali fra aree. Pertanto, il collegamento automatico del minor costo della vita nel Sud, a parità di salario, con l’inefficienza si basa sull’assunto che nel Mezzogiorno la produttività sia minore. Tuttavia, come mostrato nella parte destra della figura 2, ampi differenziali delle retribuzioni effettive persistono anche incorporando le caratteristiche delle imprese da cui maggiormente dipende la produttività e, dunque, i divari salariali osservati non appaiono attribuibili a meri differenziali di produttività.
Va anche ricordato che la produttività non dipende (se non marginalmente) dai lavoratori, ma dalle imprese che li occupano e dal contesto in cui esse operano. Ciò fa sorgere un ulteriore problema di equità – che si pone in apparente conflitto con l’efficienza – e cioè quello della penalizzazione dei lavoratori del Mezzogiorno, sotto il profilo salariale, per una circostanza sottratta alla loro responsabilità. Il tema fa riecheggiare questioni che sono state ampiamente dibattute diversi decenni fa quando si discuteva dell’opportunità di introdurre nel Mezzogiorno le cosiddette “gabbie salariali”. Oltre a ciò, se si esclude che la produttività al Sud è sistematicamente più bassa, l’auspicata omogeneizzazione del costo del lavoro potrebbe essere raggiunta anche aumentando i salari al Nord.
Le considerazioni che precedono hanno diverse implicazioni, una delle quali, forse la più generale, è che occorre considerare altri elementi oltre quelli presi in esame da Boeri, Ichino e Moretti. Alcuni di questi elementi sembrano rendere il problema meno grave di quanto non appaia (la divergenza tra retribuzioni effettive e salari contrattati), altri possono spingere verso soluzioni più favorevoli all’equità e all’efficienza, diverse dalla deroga alla contrattazione nazionale. Ma proviamo a precisare. Riferirsi all’eguaglianza dei salari reali, da un lato, e all’eguaglianza fra questi ultimi e la produttività, dall’altro, rischia di comportare una contraddizione che andrebbe sciolta in chiave di policy. L’equità richiede, infatti, che i salari reali (resi il più possibile rappresentativi dell’effettivo tenore di vita, eliminando i differenziali negli altri fattori da cui dipende il benessere) siano eguagliati e, come visto, Boeri, Ichino e Moretti sostengono che a tal fine andrebbero ridotti i salari nominali al Sud, il che comporta le problematicità richiamate in precedenza.
L’efficienza richiede, invece, che a essere almeno tendenzialmente eguagliato sia il rapporto tra salari e produttività nelle diverse aree; pertanto, se le produttività sono diverse i salari reali devono essere anche’essi diversi. Ciò pone un problema di compatibilità tra equità ed efficienza che non può essere risolto agendo unicamente sui salari nominali. D’altro canto, se si tiene conto, da un lato, che il costo della vita non è necessariamente più basso al Sud, né è uniformemente tale al suo interno e, dall’altro, che la produttività non è sistematicamente più bassa al Sud, il rischio potrebbe essere che abbassando i salari nominali al Sud si vada verso una minore e non maggiore equità e che il costo del lavoro al Sud si riduca al di sotto di quanto richiesto dall’efficienza.
La strada maestra verso l’equità e l’efficienza sembra allora essere un’altra: quella che consiste nell’adottare politiche che riducano la variabilità territoriale, sia dei fattori dai quali dipendono il costo e la qualità della vita, sia della produttività. Si tratta di una strada impervia e certamente più difficile da realizzare della deroga dai contratti nazionali del lavoro. Ma forse vale la pena di esaminarla più attentamente e di porla con maggiore forza all’attenzione dei policy maker.
Maurizio Franzini, professore ordinario di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma; Elena Granaglia, professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Roma Tre; Michele Raitano, ricercatore di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma