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La presentazione del rapporto Svimez 2019 conferma che l’effetto ultradecennale della crisi ha colpito e sta colpendo, in particolare, l’economia e la società del nostro Mezzogiorno. Il divario tra Centro-Nord e Sud del Paese si acutizza sempre di più se riferito a indicatori fondamentali quali dati occupazionali, livelli di povertà, decremento demografico, capacità salariale, potere di acquisto, welfare e assistenza sociale.
Non bisogna trascurare, scorrendo i dati, che gli effetti della recessione dell’intero sistema Paese sono ormai attribuibili, a detta di quasi tutti gli osservatori, anche a errori originali nella pratica di politiche europee che hanno visto uno scollegamento tra politica monetaria e politica fiscale con la proposizione disomogenea dei diversi livelli produttivi e, di conseguenza, anche dei benefici equamente restituibili ai diversi Stati membri. Inoltre, la frammentazione dei sistemi economici derivante, tra gli altri fattori, dalla concorrenza tra paesi dell’Europa dell’Est dove sono nati (o dove sono stati trasferiti) vecchi ed emergenti sistemi di produzione, rischia di determinare ulteriore “concorrenza sleale” e “dumping fiscale”, se si considera il carico contributivo elevatissimo di Stati come l’Italia rispetto a quello di nuovi Stati membri.
In linea generale, quindi, i commenti Svimez confermano la percezione diffusa che vede l’Europa allontanarsi dagli obiettivi nobili di Lisbona. Si è andato man mano smarrendo il progetto originario europeo che prevedeva un’armonizzazione dei livelli produttivi e occupazionali in grado di determinare un’idea di Europa sociale e solidale. L’utilizzo di innovazione tecnologica, applicato grazie a indubbi progressi proposti nel campo della ricerca e dell’innovazione, ha prodotto sicuramente benefici ma solo verso alcune grandi aree urbane dell’Europa, sacrificando le regioni rurali e le zone considerate aree di “vecchia industrializzazione”, nelle quali si è determinato un’inevitabile fenomeno di spopolamento e preoccupante diminuzione di posti di lavoro e di reddito pro capite.
In un contesto così vario di dati congiunturali - che si aggiungono a interessanti riflessioni prodotte dalla Svimez nelle attente note di sintesi di presentazione dei dati che inquadrano in un nuovo contesto vizi e difetti del capitalismo sfrenato e applicato a sistemi globali - appaiono singolari e suggestive le considerazioni riportate a mezzo stampa che attribuiscono i mali determinati da una disattenta politica ultraventennale a provvedimenti più o meno condivisibili, tipo il reddito di cittadinanza. Tali provvedimenti vanno certo rivisti in un’ottica che non deve dare nemmeno da lontano l’idea di semplice assistenzialismo, provando ad assumere invece le sembianze di uno strumento di inclusione sociale reale, ma sicuramente non sono gli unici elementi di criticità proposti (o non proposti) dalla politica ai diversi livelli.
Ancora più assurda la teoria avanzata con ossessione e con strumenti mediatici ormai al limite della decenza che individua come causa di tutti i mali il fenomeno migratorio, che interessa in maniera più o meno rilevante l’Europa e in maniera significativa il Mezzogiorno sia continentale che della nostra penisola.
Tra le tante considerazioni prodotte in queste ore, ve n’è una, invece, da sempre rilanciata dalla Cgil Molise anche in fase di presentazione di una piattaforma programmatica che parlava alla regione, ma anche a un pezzo più vasto del Paese: la considerazione, che andrebbe allargata e condivisa, è che il Sud non è una piccola regione periferica ma è metà Italia e che l’altra metà, quella del Centro-Nord, rischia di diventare il Mezzogiorno dell’Europa se i problemi non vengono valutati nel loro complesso o se continuano ad avanzare strane idee di autonomia differenziata che guardano a interessi particolari delle Regioni proponenti rispetto all’obiettivo di garanzia costituzionale che non deve mai essere perso di vista: l’obiettivo dell’interesse nazionale all’interno del contesto europeo.
I dati dello spopolamento, che vedono una proiezione di perdita di quasi 80.000 abitanti in Molise nel giro dei prossimi 45 anni, dovrebbero imporre una riflessione collettiva di altro e alto spessore a tutti i soggetti della politica, del sindacato, delle parti datoriali e della cosiddetta società civile nel suo complesso. Potrebbe apparire confortante, invece, se viene misurato e soprattutto strutturato nel tempo, l’unico dato positivo che riguarda il Molise, riferito all’aumento dell’1,0% del Pil, determinato dalla crescita della poca industria rimasta e dalla caduta vertiginosa dell’agricoltura (- 4,2%). I dati positivi, però, vanno confrontati anche con quelli pre-crisi, e da questo punto di vista, parlando di mercato del lavoro, siamo ben distanti dai numeri di dieci anni fa, registrando, in Molise, una percentuale del 5% in meno; percentuale che si aggiunge ad altri dati preoccupanti che riguardano l’intero Mezzogiorno in termini di disoccupazione giovanile e femminile e sulla crescita del lavoro part time involontario.
Il Molise, come spesso ribadito, non ha più tempo: area di crisi, area di crisi complessa, Zes (Zone economiche speciali), Snai (Strategia nazionale per le aree interne), contratti di sviluppo sottoscritti a vario titolo, hanno la necessità di essere inquadrati in un progetto ampio e di prospettiva che guardi ad un’attenta programmazione, considerata la disponibilità di fondi riferiti a vecchia e nuova programmazione europea e all’attenzione annunciata con un piano straordinario di investimenti per il Sud.
Gli incentivi devono tendere verso sistemi innovativi di imprese che sappiano sfruttare sinergie con i centri di ricerca, con le università, con le istituzioni locali e che puntino anche sulla sostenibilità ambientale. Un piano delle infrastrutture serio e realizzabile gradualmente va messo immediatamente in campo (anche per rilanciare un settore in crisi come quello delle costruzioni) e possibilmente largamente condiviso insieme a un piano di viabilità e trasporto pubblico locale che aiuti ad arginare il fenomeno dello spopolamento e dei flussi migratori permanenti dei giovani, che dovrebbero essere il futuro del nostro territorio.
Andrebbe proposto un piano antisismico straordinario di edilizia pubblica e privata per aumentare l’attrattività dei nostri piccoli centri, anche verso un turismo cosiddetto “di ritorno” e di qualità. In controtendenza con le richieste di regionalismo “particolare”, andrebbero chieste deroghe normative solidali per i sistemi di garanzia ai diritti fondamentali in materia, ad esempio, di sanità, conoscenza e istruzione che sono state oltremodo penalizzate dalla idea di aziendalizzazione e attraversate da tristi riforme che non hanno mai considerato le specificità di partenza, anche orografiche, dei territori interessati.
La Cgil del Molise è pronta a dare il proprio contributo e sarà mobilitata in tutte le occasioni ritenute utili per la creazione di un blocco sociale progressista che, partendo dai territori, ambisca a determinare una politica che tenda alla creazione di lavoro, al miglioramento della qualità della vita e che richiami alla dignità, alla solidarietà, al progresso e al futuro sostenibile tenendo in considerazione anche i fenomeni cosiddetti di “giusta transizione” tra eventuali modelli diversi.
Paolo De Socio è segretario generale della Cgil Molise