La sicurezza alimentare, la gestione e lo sfruttamento sostenibili dei suoli agricoli, delle foreste, della flora e fauna marine e delle acque interne sono fattori che sempre più influenzano la società in cui viviamo. La transizione verso un’economia circolare, in grado di integrare bioeconomia e modelli di produzione sostenibile, è quindi una sfida non più eludibile per l’Italia, e per l’Europa intera. Ma è anche un campo in cui il nostro Paese può recitare un ruolo da protagonista a livello globale, oltre che una grande opportunità per ripristinare la fertilità del suolo e decarbonizzare il sistema produttivo nazionale.
L’agricoltura, la silvicoltura e gli altri settori che fanno uso del suolo (noti collettivamente come il settore AFOLU) sono infatti responsabili di poco meno di un quarto delle emissioni globali dei principali gas ad effetto serra. In Europa, l’agricoltura rappresenta circa il 10% delle emissioni complessive e in termini assoluti emette 464 milioni di tonnellate di Co2. L’adozione di pratiche sostenibili per la gestione del suolo svolge dunque un ruolo chiave nello sforzo di decarbonizzazione dell’economia. Tra l’altro, recenti analisi dimostrano che questo comparto può contribuire in maniera decisiva all’abbattimento complessivo delle emissioni, ma potrebbe anche contribuire a trasformare il settore energetico attraverso lo sviluppo di bioenergia e biomateriali a zero emissioni.
Tutto ciò assume un’importanza cruciale in un’Europa ormai a rischio desertificazione. La Commissione europea afferma che il 20% della superficie continentale è soggetta a erosione, con la Spagna gravemente minacciata, mentre preoccupa anche il futuro di Grecia, Bulgaria, Italia, Romania e Portogallo. In Europa, intanto, la bioeconomia ha già raggiunto un valore di 2.000 miliardi di euro di fatturato annuo con più di 20 milioni di posti di lavoro, mentre si prevede una crescita, in termini di valore di mercato, di ulteriori 40 miliardi di euro e 90.000 nuovi posti di lavoro entro i prossimi anni. Inoltre, l’industria alimentare è la prima per dimensione all’interno dell’Ue ed è ancora potenzialmente in espansione, con nuovi mercati e industrie che stanno emergendo nei settori alimentare e non alimentare, sia nuovi che tradizionali. Nell’Ue poi, tra il 2009 e il 2015, il tasso di crescita complessivo del valore aggiunto dei settori a base biologica ha oscillato tra il 14% per la produzione di legno e prodotti in legno e il 23% per la fabbricazione di pasta di legno, carta e cartone. Nello stesso periodo, il tasso di crescita complessivo del valore aggiunto Ue di prodotti chimici, prodotti farmaceutici, materie plastiche e gomma a base biologica è stato del 17%.
Dopo anni di trattative, intanto, nell’aprile 2018, il Parlamento europeo ha anche dato il via libera al pacchetto sull’economia circolare, quattro direttive, pensato per combinare ambientalismo e crescita economica. Le potenzialità secondo la Commissione sono di portare risparmi per le aziende di 600 miliardi l’anno, 140 mila nuovi posti di lavoro e un taglio di 617 milioni di tonnellate di Co2 entro il 2035. Con effetti sul Pil tra l’1 e il 7% annuo. Nel concreto, le direttive emanate riguardano il riciclo dei rifiuti, gli imballaggi, i rifiuti da batterie, le componenti elettriche ed elettroniche, le discariche. L’idea portante è che ottimizzando il ciclo di vita dei prodotti e recuperando le materie prime dai rifiuti, le aziende inquineranno meno e soprattutto taglieranno i costi nel processo produttivo. I nuovi indirizzi introducono diversi cambiamenti. Tra questi l’obbligo di raccolta separata dei rifiuti organici, come cibo e piante, e soprattutto nuovi obiettivi per riciclare i rifiuti da imballaggi: il 65% entro il 2025 e il 70% entro il 2030 con alcuni sotto target, come quello della plastica (50 e 55%), del vetro (70 e 75) o della carta (75 e 85). Fondamentale anche il nuovo tetto del 10% massimo entro il 2035 ai rifiuti che potranno essere gettati in discarica.
Anche per questo, in Italia qualcosa ha cominciato a muoversi. Nel nostro Paese l’intero settore della bioeconomia (che comprende l’agricoltura, la silvicultura, la pesca, l’industria alimentare e delle bevande, della cellulosa, della carta e del tabacco, oltre che l’industria tessile delle fibre naturali, biofarmaceutica e della bio-energia) ha raggiunto un giro d’affari di 250 miliardi di euro e circa 1,7 milioni di dipendenti nel 2015. Il nostro Paese è anche diventato un caso di studio internazionale per la trasformazione dei rifiuti organici in compost. Il Consorzio italiano di impianti di compostaggio e biogas (CIC) ha infatti stimato che, sempre nel 2015, circa 4 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani e 2 milioni di tonnellate di rifiuti verdi sono stati raccolti separatamente e inviati per trattamenti biologici. La frazione organica recuperata ogni anno pro capite corrisponde quindi a circa 67 chili rispetto a una quantità potenziale di circa 170. Un gap che può essere facilmente colmato. Inoltre, alcuni anni fa, il Kyoto Club e la SUSDEF (Fondazione per lo sviluppo sostenibile) hanno lanciato l’iniziativa “L’Italia verso zero rifiuti organici in discarica”, con l’obiettivo di sfruttare la frazione organica di rifiuti, considerandola una preziosa risorsa. Il programma è stato supportato da molte associazioni e università e dalle più grandi multiutility del Paese.
Appare chiaro che, in questo processo, i centri di consumo e in particolare le città e le aree metropolitane svolgono un ruolo decisivo. Perché influenzano il consumo alimentare, la produzione di rifiuti, la qualità e la quantità dei prodotti, oltre che i sistemi per la raccolta e il trattamento, e le pratiche di riciclaggio dei materiali organici e non organici. Ne è un esempio virtuoso l’iniziativa “Food Policy” intrapresa dal Comune di Milano, un progetto sperimentale che affronta la grande sfida dell’economia circolare, coinvolgendo una serie di problemi come la raccolta e la qualità dei rifiuti organici, il risparmio alimentare, i programmi educativi a partire dalle mense scolastiche e dalle diete degli studenti, ma anche i mercati di strada e i rivenditori, il settore del riciclaggio, e le start up nel settore della bioeconomia.
Per uno sviluppo più sostenibile, in Italia, in Europa e nel resto del mondo, è di fondamentale importanza un cambio drastico dei processi di produzione, dei modelli di consumo, del riciclaggio e dello smaltimento delle risorse biologiche. L’integrazione della bioeconomia nel modello dell’economia circolare è la chiave per lo sviluppo di una società sostenibile, poiché la bioeconomia circolare è la pietra angolare tra l’agricoltura e la produzione industriale di prodotti a base biologica, funzionali sia alle pratiche agricole sostenibili che alla protezione del suolo. Questo modello di bioeconomia include il concetto di “regioni sostenibili”, introdotto dal gruppo di esperti sulla bioeconomia della Commissione europea. La sostenibilità non è infatti un concetto mondiale, ma è legata alle qualità delle aree locali e alle loro specifiche situazioni economiche.
Una bioeconomia fiorente parte infatti dalla produzione primaria, e un requisito fondamentale per le industrie è la disponibilità a livello locale di materie prime biologiche competitive. Questo vale tanto più in Italia, dove ciascuna regione si caratterizza per una propria specificità nel paesaggio agricolo e naturale, collegata alla biodiversità delle piante coltivate, della fauna e dei servizi ecosistemici, e per una diversa tradizione culturale. Le regioni sono tra l’altro particolarmente motivate nel mantenere in vita le economie rurali, mettendo in atto cicli economici locali e sostenendo progetti locali agro-industriali con l’idea strategica di utilizzare bio-risorse in modo più innovativo ed efficiente.
Il settore agroalimentare, infine, è una priorità per l’Italia, perché riflette il valore e l’importanza del settore legato alla qualità e alla forte identità dei prodotti. La bioeconomia diventa quindi una leva chiave per promuovere la rigenerazione culturale, oltre che industriale, ambientale e sociale per una comunità in grado di garantire un uso efficiente delle risorse. Ciò può trasformare i problemi locali in opportunità commerciali, in grado di estrarre valore dalla conservazione e rigenerazione del capitale naturale e sociale, e conferire un peso economico significativo alle esternalità generate dai vari modelli di produzione e consumo.